È difficile ricordare la Shoah, e infatti nella mia famiglia sono serviti anni per farlo, anche se ne era stata colpita sia dalla parte materna, con espulsioni, fughe, due morti a Mauthausen, sia da quella paterna, con lo sterminio quasi completo della famiglia del mio babbo Alberto (Aaron) Nirenstein. Lui si salvò con un'avventurosa fuga da Baranov in Israele, Palestina mandataria, nel '36, e con lui due sorelle, Miriam e Ada. Del nucleo stretto, quattro sorelline e il suo adorato fratello Moshe furono sterminati a Sobibor con il padre Joseph e sua moglie, e tutti gli zii e i cugini.
Ma quando mio padre decise con i suoi libri di condividere il fardello che rese per sempre il suo linguaggio diretto, nemico delle sciocchezze, quando espose i punti esclamativi e interrogativi che ne avevano fatto una persona brusca, allora la sua storia della Shoah, più che memoria divenne imperativo a combattere sempre, perché il rischio non è svanito. Dice Elie Wiesel: «Ci avesse detto qualcuno, quando fummo liberati, che saremmo di nuovo stati obbligati a combattere l'antisemitismo, non avremmo avuto la forza di alzare gli occhi dalle rovine. Pensammo che se solo avessimo raccontato, il mondo sarebbe cambiato. Bene, l'abbiamo fatto, e il mondo è rimasto lo stesso».
Gli appelli alla memoria di questi giorni, mentre il mio computer seguita a essere bombardato da episodi di antisemitismo, ormai legalizzato e anche bene accetto quando si presenta come critica allo Stato d'Israele, travestito da battaglia per i diritti umani, sono in gran parte acqua su una ferita suppurata. Ci sono due elementi che rendono la Memoria della Shoah mal praticata. Anzitutto, sapere che un popolo intero, dagli ufficiali che dicevano di limitarsi a obbedire agli ordini, fino alla maggioranza dei cittadini che hanno con piacere perverso collaborato a uccidere fra i sei milioni di ebrei anche un milione e mezzo di bambini, o assistito in silenzio all'eccidio; inghiottire il concetto che quasi tutta Europa vi ha collaborato finché gli americani hanno imposto con le armi la fine di quel rogo collettivo... è molto difficile. È quello che mio padre fa nel suo libro È successo solo 50 anni fa. Se si vuole ricordare, per esempio si deve leggere come a Varsavia, Lodz, Byalistock, Cracovia... nei ghetti «si nota un numero sempre maggiore di bambini dalle facce gonfie, con gambe e braccia anch'esse gonfie; dai corpicini coperti di bolle e croste; dalle facce scheletriche da cui spiccano con violenza degli occhi grandi spaventati, affamati con ossa del cranio sporgenti; di bambini con le gambette inverosimilmente magre e dalle facce invecchiate, appassite; bambini per le strade, rannicchiati, miseri, sofferenti - bambini affamati».
Per ricordare occorre guardare l'inguardabile: Emanuel Ringelblum scrive che «nei ghetti le strade erano piene di corpicini che una mano pietosa copriva coi giornali, e rimanevano così». Guardare le stragi dei bambini nelle fasi dell'eliminazione dei disabili fisici e mentali, del gas nei camion, delle fucilazioni in braccio alle madri, della deportazione in massa di bambini separati dai genitori verso le camere a gas, delle processioni di creature con i loro maestri che decidevano di morire con loro, silenziosi e disciplinati. Durante i rastrellamenti i tedeschi davano la caccia ai bambini ebrei con cani lupo ammaestrati, buttavano i bimbi in aria e li infilzavano con le baionette, tagliavano le loro teste con le asce, spaccavano i neonati in due, li gettavano nei roghi, nei pozzi e nei fiumi, li seppellivano vivi. Una bimba di 7 anni ricevette da un SS la promessa che se avesse baciato il cadavere della sua mamma lui non l'avrebbe uccisa: lei la bacia e lui le spara. Un bimbo di 5 anni offrì a un SS una matita morsicata e uno specchietto rotto, i suoi tesori più cari, e l'SS gli sparò; una bimba tredicenne prima di essere uccisa si rivolse al capo SS dicendo «ma io sono grande, posso lavorare, perché vuole fucilarmi?». Nel '46 a Lublino i bambini deportati furono ricondotti al loro orfanotrofio perché il numero non soddisfaceva gli SS. I genitori, credendo il posto sicuro, lo riempirono di bambini che subito furono portati via mezzi nudi e affamati, falciati con mitragliatrici e buttati vivi nelle fosse preparate nelle cave vicine. Per chi vuole ricordare la Shoah, qualsiasi versione edulcorata non è memoria, è un film scolorito che riguarda responsabilità collettive vaste, riguarda l'antisemitismo genocida.
E questo è il secondo ostacolo veso la vera Memoria. Il messaggio che generalmente è stato tramandato è che un mondo emendato e consapevole mai più avrebbe potuto avventarsi sugli ebrei in quanto tali per ucciderli. Ma gli eventi di questi anni ci mostrano una versione completamente diversa della realtà. Nonostante le prove siano migliaia, non c'è un sostenitore dell'importanza del Giorno della Memoria che accenni alla necessità di farla finita con l'intenzione da parte di Stati e di gruppi ricchi, famosi, potenti, di eliminare il Popolo Ebraico e la sua maggiore istituzione, Israele. Mi riferisco soprattutto all'Iran, che ne ha fatto la sua pietra di fondazione, e a buona parte della propaganda palestinese, sia di Hamas, sia di Fatah, che solo ogni tanto traveste il suo terrorismo da irredentismo, ma in genere punta a uccidere gli ebrei. L'Iran è un'enciclopedia di dichiarazioni e di operazioni genocide.
Il caso più citato è quello del presidente Mahmud Ahmadinejad che nel 2005, evocando il padre fondatore Ayatollah Ruhollah Khomeini, disse che il regime di Gerusalemme «deve essere cancellato dalla mappa». Il ministro degli Esteri Manouchehr Mottaki nel 2008 affermò che «deve essere eliminato dalla faccia della terra»; Ahmad Khatami chiese nel 2012 di «annichilire il regime sionista»; Hassan Rouhani ha promesso di «mondare il mondo dalla ferita imposta al mondo» e via via verso i nostri giorni le Guardie della Rivoluzione, i basiji, i politici, Ali Khamenei stesso... È stato lui a usare l'espressione «soluzione finale». Esmail Ghaani, capo delle guardie rivoluzionarie, ha precisato il piano: «gli hezbollah stanno per portare il colpo fatale». E con loro le altre milizie che ormai circondano gli ebrei. L'Iran ne è il maggior finanziatore, ma è l'Ue che senza battere ciglio seguita ad aiutare Abu Mazen che paga fra i 400 e i 3500 dollari al mese chi uccide o tenta di uccidere un ebreo. Hamas resta il leader del terrorismo genocida; quanto a Fatah, ci si illude che si tratti di un sogno irredentista, anche se la suddivisione è stata respinta almeno cinque volte dal 1948, quando in cambio di due Stati per due popoli i palestinesi scelsero la guerra di distruzione per la prima volta, seguiti poi, disastrosamente, da tutto il mondo islamico.
È mai possibile che l'Onu, l'Unione Europea, le istituzioni più svariate che sostengono l'Autorità Palestinese, non le chieda mai conto della sua intenzione genocida, del perché i bambini imparano a odiare gli ebrei disegnandoli con tutte le caratteristiche di ferocia, perversione, egoismo, razzismo, facendone i diffusori del Covid e la causa della guerra in Ucraina? L'Ue del «mai più» non è compatibile con quella che non vede come Israele abbia tentato invano ogni strada di pace da contrapporre a un odio ideologico inestinguibile. Che cosa pensa chi ripete «mai più» quando Fatah vanta 7200 attacchi nel solo 2022 e si eccita annunciando di aver compiuto 76 attacchi a fuoco in un mese? Quando il paragone fra Israele e il nazismo diventa luogo comune insieme alla follia degli ebrei come «suprematisti bianchi»? Tornando a Eli Wiesel e al «mai più».
È una pratica di revisione intellettuale, di abbandono ai paradossi politici per cui Israele è uno Stato coloniale, imperialista, di apartheid, gli ebrei sono suprematisti bianchi, criminali di guerra. Slogan sempre più frequenti durante le manifestazioni contro Israele.Gli europei devono saper riconoscere la tradizione antisemita, conoscere la loro stessa storia ricordandola con vergogna, e rinnegare gli stereotipi.
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