Roma - Monti si prepara a stangare Bersani e Camusso. Il premier ha appena superato lo scoglio della manovra lacrime sangue, seppur perdendo per strada una sessantina di deputati del centrodestra. In effetti la sua amara medicina è risultata molto più indigesta al Pdl perché oggettivamente sbilanciata sul terreno del rigore rispetto a quello della riduzione della spesa e alla crescita. Il tasto delle tasse è stato pigiato molto più in profondità per esigenze di rigore dei conti pubblici e forse s’è perfino ecceduto, visti gli effetti recessivi della manovra, nonostante Monti continui a ripetere che nel decretone ci sono pure misure per lo sviluppo. Bruscolini.
Ma il professore guarda più in là e si appresta a dare una vera e propria mazzata all’altro grande sponsor del suo esecutivo: il Pd. Il prossimo fronte, infatti, è il mercato del lavoro, terreno sul quale il premier ha già intenzione di misurarsi con le idee più che chiare. La rivoluzione sarebbe l’altra grande riforma strutturale, dopo quella sulle pensioni, che potrebbe aiutare la ripresa economica e lo sviluppo. Quali le direttrici dell’intervento di Monti? La ricetta del governo tecnico non è certo un mistero e basta leggere quanto dice il commissario Ue Olli Rehn, anticipatore da Bruxelles delle prossime mosse del premier italiano: «La manovra è convincente anche se c’è ancora molto da fare soprattutto su occupazione e crescita». I punti principali sono le liberalizzazioni, tema in cui Monti è stato sconfitto ma su cui giura di prendersi la rivincita a breve, ma soprattutto il mercato del lavoro. Vale a dire: più flessibilità in uscita con la revisione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e revisione degli ammortizzatori sociali. Ovviamente fumo negli occhi per gran parte del partito di Bersani, che rischia seriamente di spaccarsi tra riformisti e ortodossi, e per la Cgil.
Monti per ora è cauto e ripete che per quanto riguarda il metodo seguirà quello tradizionale della concertazione con le parti sociali: ossia dialogo con i sindacati, già sul piede di guerra appena sentono puzza di articolo 18. Si sa che il professore guarda con favore al pacchetto Ichino, giuslavorista del Pd che sta già spaccando il suo partito. Da una parte i gauchisti dell’«articolo 18 non si tocchi» che vedono schierati attorno al segretario Bersani anche il responsabile dell’economia Fassina, l’ex ministro del Welfare Damiano, gli ex sindacalisti Cofferati e D’Antoni e altri; dall’altra i riformisti guidati da Letta, spalleggiati da Veltroni, Morando, Boccia, Fioroni, Gentiloni, Ceccanti, Donini e un’altra quarantina di supporter.
Il modello Ichino sostanzialmente prevede più facilità di licenziamento accompagnato però a un sistema di tutele a carico delle aziende, denominato flexsecurity. Più ricambi interni alle imprese ma più ammortizzatori sociali secondo il sistema in vigore in Danimarca. Il ministro del Welfare Elsa Fornero ha già detto di apprezzare lo «scandinavo» strumento del «reddito minimo garantito» che potrebbe costituire moneta di scambio per la revisione dell’articolo 18 ma dai sindacati sono già arrivate le prime smorfie. Inoltre la misura avrebbe costi elevati anche se il «file lavoro» non è stato ancora radiografato interamente ma lo sarà presto. E molto probabilmente in trincea, da parte del governo, ci sarà il giovanissimo viceministro Michel Martone che però non ha ancora ricevuto le deleghe. È lui l’esperto del settore, mentre la Fornero è decisamente più ferrata in materia di previdenza. Il riordino degli ammortizzatori sociali, tuttavia, non è semplice perché si torna sempre lì: i soldi che mancano; e il pareggio di bilancio è un vincolo da cui non si può derogare.
Ecco perché, sebbene il premier alla Camera abbia detto «spero che
questa sarà l’ultima manovra di sacrifici», in molti temono che la sua speranza sia vana. Lo spread non cala, le prospettive di crescita non ci sono e i tagli alla spesa sono ancora troppo pochi. Una bella grana per il prof.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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