«Da Riina all’Apostolo il mio successo sembra un miracolo»

In un episodio di Il tredicesimo apostolo andato in onda mercoledì scorso, lui, Claudio Gioè, guarda fisso negli occhi Claudia Pandolfi, mica la prima che passa per strada, e le fa: «Voglio dormire qui stanotte». Dove «qui» significa proprio in casa di Claudia Pandolfi. E lei, che nella fiction di Canale 5 di cognome fa Munari e di professione fa la psicoterapeuta, acconsente al volo. «Bel colpo, padre Gabriel», pensa lo spettatore maschio eterosessuale. Ma poi, alla fine dello stesso episodio della serie «dramma-fantasy», sempre il Nostro, sempre alla bella Claudia e sempre nel di lei salotto, mormora con voce rotta dall’emozione: «Per un po’ è meglio se non ci vediamo». A quel punto la spettatrice eterosessuale si commuove, mentre lo spettatore eterosessuale, pur avendo familiarizzato con l’atmosfera paranormale, maledica il vincolo della castità che castra gli ormoni dei preti.
Caro Gioè, è dura fare il prete di fronte a simili tentazioni?
«Beh (ridacchia), come prete non so rispondere. Nel Tredicesimo apostolo abbiamo messo a confronto due persone, io teologo gesuita e docente universitario, e Claudia, che hanno fatto scelte di vita diverse, ma entrambi con tabù e regole da rispettare. Poi certo... gli sceneggiatori hanno un po’ giocato sul rapporto fra un religioso e un’affascinante laica, ma senza nemmeno un filo di morbosità, bisogna riconoscerlo».
Vero. Magari la gente si aspettava qualcosa tipo Uccelli di rovo... Insomma, Il prete bello, dal romanzo di Goffredo Parise ai reiterati sbaciucchiamenti di Richard Chamberlain, è un personaggio che intriga.
«Intanto io non sono poi così bello... E poi si devono rispettare le regole del melodramma, dei rispettivi ruoli. Gabriel e Claudia sono entrambi maturi. Certo che con il tempo...».
Il tempo è galantuomo, lo sappiamo. Invece per la Chiesa l’amore fra don e donna resta più paranormale e inaccettabile delle criptoamnesie e delle reincarnazioni...
«Ma vedo che anche all’interno della Chiesa qualcosa sta cambiando...».
Anche per lei qualcosa è cambiato. È passato dalla realtà della cronaca nera (Paolo Borsellino e Il capo dei capi, addirittura nei panni di Totò Riina) all’irrealtà dell’ignoto.
«Sì, e ho scoperto la libertà e la fantasia. Si è allentato il rigore storicistico e quindi ho potuto dare spazio al mio immaginario. E poi io sono un appassionato del cinema di genere. Mi piacciono i Dario Argento, i Sergio Leone. Il bello del “genere” è che hai a disposizione una forma tradizionale da rispettare che tuttavia ti consente di lavorarci sopra mettendoci del tuo».
Quindi recitando nel Tredicesimo apostolo lei ha anche fatto un salto nel suo passato di spettatore?
«Certo».
Anche se il paranormale e la fantascienza, in tv, andavano forte quando lei non era ancora nato... Il segno del comando è del ’71, A come Andromeda del ’72.
«Ho recuperato da grande».
Invece per fare il prete non ha studiato da padre Ralph...
«Sinceramente no».
E nemmeno dal Gabriel Garko di Io ti assolvo...
«Studiare Gabriel Garko?!».
Ho esagerato, mi scusi.
«Però guardi che buttarsi oggi a fare una serie come Il tredicesimo apostolo, dopo tutte le serie americane che sono prodotti pressoché perfetti, anche tecnicamente, è una grande sfida. Il pubblico, nello stesso tempo, è preparato ed esigente. Noi avremo sicuramente fatto qualche errore, ma i nostri tecnici, con a disposizione un budget non altissimo, sia detto senza intento polemico, e la presenza di qualche canone vecchiotto, hanno fatto miracoli».
È entrato nella parte, parla come un prete. A proposito, dulcis in fundo, che cosa mi dice della Pandolfi?
«Un vulcano. Non si stanca mai e ha lo spirito giusto per un’avventura simile. Io invece sono più posato e riflessivo.

Questione di carattere».
La confessione di Claudio Gioè alias padre Gabriel è terminata. E il suo apostolo benedice gli ascolti anche della seconda puntata (oltre sei milioni di telespettatori con il 22.85 per cento di share).

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