Rimpianti in forma di agrifoglio

«Che saranno mai questi agrifogli?». La tenuta rivierasca di collina che ha per nome, appunto, «gli agrifogli» è la quinta su cui gettano la loro ombra, durante la bella stagione, i membri di un ceto composto da docenti universitari, impiegati dell’editoria e liberi professionisti. La loro voce è attutita da un velo fatto di prudenza, debolezza morale o rinuncia; per quanto, sfogliando i racconti di Un’estate ancora di Camilla Salvago Raggi (Aragno, pagg. 182, euro 15) ci si imbatta, più che nell’amarezza, in un amarognolo disceso dal sospetto, forse scemo forse romantico, di aver mancato la vita, o di essere invecchiati accanto ad una persona che l’ha mancata.
Questioni femminili, a prima vista: tradimenti solo sognati, matrimoni finiti a spasso, infatuazioni pomeridiane ingigantite dalla noia. Le ricattatorie rose che non colsi, insomma. Ma meglio non farsi illusioni. È che nel caso delle donne la scelta del compagno fa spiccare una decisione, un bivio, che gli uomini facili non drammatizzano. E poiché l’esistenza è essenzialmente una serie di atti ispirati, soffermarsi sulle opzioni lasciate cadere permette di cavare tutta la sopita crudeltà, lo strazio o il normale cinismo che la costituisce. A prenderla per il verso sbagliato, la sua tragica e desolante arbitrarietà.
Come già nel primo racconto, una sorta di dimostrazione «in forma» della costituzionale modellabilità dell’essere umano. La moglie di un «condirettore di un’industria dolciaria con sede poco fuori dal paese» diventa un’altra persona dopo aver sviluppato un’amicizia con Magda, una forestiera; e quando quest’ultima le porta via il marito, le lascia comunque in eredità, come in alcune celebri pagine di Bradbury, lo «stampo», il suo modo di fare. O come nella rievocazione nostalgica di Giordano, un tempo paggio di un marchese; esempio estremo di «vivere vicario» in cui il rapporto servo-padrone genera dipendenza, divenendo paritario fino al paradosso: «Era la vecchiaia a fargli paura, non la morte. E, stranamente, la mia più della sua». Una corrispondenza addirittura a chiasmo, con investimento pulsionale delle trippe altrui.
Nell’ultimo racconto, che dà il titolo alla raccolta, l’intrecciarsi delle esperienze diventa corale. Oggi, che spendendo meno si può vedere il mondo, nessuno compra più una seconda casa. Forse è arrivato dunque il momento di invitare i sociologi a scrivere di questa istituzione che erano le case al mare o in montagna, e le relazioni che vi intrattenevano famiglie liberate dall’oppressione del lavoro per venti giorni, o un mese (ma le mogli e i bambini spesso arrivavano a inizio luglio, e levavano le tende in settembre).

E allora, che saranno mai questi agrifogli? Il miraggio di una piccola comunità né gretta né eversiva composta da due o tre generazioni, tempo libero a disposizione, relativa tolleranza alle idee diverse, un orizzonte naturale non esotico, paesano ma non strapaesano, e tutto l’agio di abbandonarsi al blando bovarismo che intossica lentamente, e dolcemente, la vita. Come i colchici fioriti, oltre le mura della magione e nei versi di Apollinaire, avvelenano i prati autunnali.

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