Il riscatto sociale delle donne nere? È un'"opera" (ingannevole) dell'IA

Entri al Palazzo della Secessione di Vienna per ammirare Klimt. Ma poi...

Il riscatto sociale delle donne nere? È un'"opera" (ingannevole) dell'IA

Il Palazzo della Secessione a Vienna è un teatro della sua crisi novecentesca e delle sue pulsioni distruttive e creatrici, ma i tempi del Beethoven secondo Mahler, dell'arte totale post wagneriana e della lussuria bizantina di Klimt sono lontani. Abitano ormai solo nei musei e nelle sale da concerto.

Ai primi di agosto a Vienna fa insolitamente molto caldo. Cerco un rifugio. Finisco, quasi automaticamente, per tornare a visitare quel luogo natio dell'avanguardia artistica europea; forse volevo sentire in cuffia il quarto movimento della Quinta sinfonia, protetto dall'aria condizionata, e contemplando il fregio di Klimt come fosse un video in perpetuo loop. Al contrario, tutta quella prevedibilità, quella presunzione di comfort zone, ha trovato il suo inciampo. Appena arrivo al Secessionsgebäude percepisco uno strano colore, particolarmente annerito, campeggiare sulla celebre cupola, il cavolo d'oro, progettata da Olbrich. Dov'era finito lo splendore Jugendstil che si sprigionava da quella sfera enigmatica?

In effetti, all'interno del Palazzo ci sono sempre diverse mostre, assai qualificate, di arte contemporanea, benché io non avessi nessun interesse per vederle. Vado subito nel piano inferiore e passo tre quarti d'ora a esaminare la ricostruzione della mostra su Beethoven, poi finalmente giù per andare a trovare Klimt. Sono molto felice, inebriato di aver respirato quel concentrato di decadentismo, in fondo come tutti i professori borghesi di mezza età, intrisi di miti asburgici e di letteratura adelphiana da Finis Austriae. Poi mi dico: perché non faccio un salto a vedere cosa espongono? Ovviamente questo pensiero è carico di pregiudizio negativo e passatista. Dopo aver visto Klimt, ma figuriamoci cosa possa esserci. Salgo le scale, sull'ammezzato mi accorgo che dentro uno schermo c'è una donna che parla, mi pare sia una intervista, probabilmente è l'artista che espone al piano superiore. Starà spiegando la sua opera? Per il momento ignoro la cosa, vado di fretta. Ma cosa trovo quando entro nella mostra? Nient'altro che mobili abbandonati; per l'esattezza hanno l'aria di essere dei secrétaire, ma ho il sospetto che li hanno prodotti appositamente per la mostra. Nulla di antico, sono privi di patina, appaiono fatti in serie. I cassetti sono aperti, anzi gli spettatori li possono tranquillamente maneggiare, e ciò che deve attirarli sono le molte foto che contengono.

Anche mia madre tiene ancora molte mie foto di famiglia dentro logori cassettoni. Le vecchie istantanee, i ricordi privati e intimi, le testimonianze visive del lessico familiare, che destano sempre una certa commozione e perfino la curiosità morbosa di spiare la vita privata di gente che, spesso, è ormai morta. Le foto sono, però, piuttosto subdole. Tutte le immagini mostrano donne nere che hanno raggiunto la libertà, la giustizia, lo sviluppo, la gioia e molto altro ancora. L'abbigliamento colloca i soggetti nei secoli moderni, senza che si capisca esattamente dove e quando. Sono creature, eleganti e sofisticate, che esprimono lusso e potere. Il conto non torna, ed è chiaro che si trova qui l'invenzione artistica. Non sono foto, o perlomeno non sono foto d'epoca. Ma si tratta di una rappresentazione? Si tratta di modelle che sono state spinte a interpretare una scena? Si tratta di un fotogramma, magari totalmente creato ex nihilo, come nelle opere di Richard Crewson? Nulla di tutto questo.

Solo attraverso le didascalie mi diventa chiaro che i soggetti così realistici sono stati generati con l'aiuto dell'intelligenza artificiale. Superato lo choc, torno a guardare il video che avevo evitato superficialmente di analizzare. Scopro che la reinvenzione della memoria e l'esame critico dell'archivio sono fondamentali per la ricerca di questa artista che non conosco. Il suo nome è Delahante Matienzo. Mi viene spiegato che questa esposizione ha uno scopo preciso, è una strategia di recupero dell'identità e della storia per le persone a cui è stato negato il diritto di registrare la propria memoria collettiva. Lei è un'artista cubana con radici africane e cinesi, consapevole, per esperienza diretta, che per molto tempo la storia familiare poteva basarsi solo su tradizioni orali. Con «Achievement», il titolo della mostra a cui sto assistendo, viene presentato un archivio immaginario in cui le donne di colore appaiono come membri importanti, ricchi e apprezzati della società e come donne d'affari attive e autodeterminate. In tal modo, non solo si critica la storia - e ciò sarebbe consuetudine - ma si compie anche un passo importante verso una sua potenziale riprogrammazione - e questo invece mi torna piuttosto spaesante.

Delahante Matienzo reagisce allo sguardo coloniale con controrappresentazioni sicure di sé e dichiara nell'intervista: «I neri non erano solo schiavi. Erano impegnati con così tante cose. Credo davvero che l'intelligenza artificiale possa colmare il gap e contribuire a cambiare, almeno un po', la mentalità delle persone». Fin qui l'utopia emancipatrice del discorso ideologico sotteso a questa mostra. Al contrario, ne vengo fuori con molti dubbi sulla riuscita di questo messaggio. Ma forse non è quello che conta davvero. Il passato - mi chiedo - è, quindi, con l'aiuto dell'intelligenza artificiale, pronto a essere cancellato, riprogrammato, prodotto? Non è una diversa interpretazione di ciò che è accaduto, bensì è in atto un'operazione, in forza dell'intelligenza artificiale, capace di rendere indifferenziato ciò che è accaduto e ciò che non è accaduto, allo scopo di correggere moralmente la nostra memoria. Al di là delle intenzioni dell'artista cubana, la cosa che mi ha colpito è la prova oggettiva di un passato fotografabile, documentabile, verificabile in una forma che nella nostra percezione è ostinatamente reale, ma che nello stesso tempo è totalmente contraffatto. Naturalmente il passato è sempre stato rappresentato in forma tendenziosa, ma in modo tale che fosse sempre possibile tracciare una linea di demarcazione tra la realtà e la sua rappresentazione. Qui non è possibile. La profondità del falso ha raggiunto capillarmente la nostra sensibilità fino a rendersi coestensiva ad essa. I nostri occhi sono disinnescati, incapaci di reagire, registrano, come per una contrattura involontaria di un muscolo, l'assertività degli stimoli a cui sono sottoposti.

Sappiamo bene, ma solo in parte, di cosa si tratta, perché fin dal principio è stata la fotografia a mostrarci come l'evidenza del reale che essa apparentemente mostra sia, invece, sempre una costruzione, un'invenzione, un'arte. La costruzione estetica della realtà, per esempio, è ciò che appunto hanno realizzato i grandi apparati persuasivi totalitari, i quali, però, non fecero altro che utilizzare dispositivi esistenti per scopi apparentemente neutrali. La storia è sempre stata cancellata e riscritta, perciò dobbiamo guardare ad essa sempre con cautela, a volte con diffidenza. Se un tempo, però, era la macchina fotografica a obiettivare la realtà, adesso tutto passerebbe per il prompt di AI. Attraverso istruzioni, protocolli, descrizioni si giunge alla contraffazione dello scatto. Così già cominciano a circolare foto fasulle di personaggi letterari e storici che si confondono senza rimedio con quelle reali. Ma non basta, finirà che vedremo foto di avvenimenti storici privi finora di mediazione visibile. Forse accetteremo di apprendere la storia attraverso inediti reportage d'immagini su come sono veramente andate le cose nella battaglia di Waterloo. Un mezzo invincibile per convincerci della verità morale superiore che può e deve dominare l'Uomo Nuovo del Ventunesimo secolo?

L'improvvisa irruzione della potenza generativa di AI ci potrebbe porre perciò di fronte a un salto evolutivo. Nessuno dimentica il racconto di Orwell in 1984, ma lì si poteva ancora ritenere che dietro le operazioni del protagonista, il funzionario Winston Smith, presso il Ministero della Verità, ci fosse sempre la possibilità di risalire a una irriducibile opposizione tra verità e menzogna. Al contrario con AI le cose potrebbero cambiare, fino al punto di demolire nella nostra coscienza ogni possibilità di ritenere il passato qualcosa che ha il carattere ontologico dell'evento. Una eventuale cancellazione e sostituzione di una narrazione del passato con l'altra potrebbe essere scambiabile in forma assoluta e senza troppe resistenze mentali della coscienza. In altri termini potremmo finire come in We Can Remember It For You Wholesale di Philip K. Dick, dove tutto viene riprogrammato: la nostra coscienza, la nostra memoria, e dove potremmo disporci a vivere in un mondo mai accaduto. Un po' come le nuove generazioni di young adults che sono già pronte a credere alla favola di un mondo moderno multietnico e globalizzato nell'Europa di secoli fa. Ovvero accettano supinamente le favole zuccherose e moralmente emendate di Bridgerton su Netflix.

Quando sono uscito dal Palazzo della Secessione ho dato un nuovo sguardo alla Cupola di Olbrich. L'artista cubana aveva trasformato le foglie d'oro nei ricci neri della spontanea capigliatura afro.

Un atto di ribellione e di libertà, ci dice. Ho voltato le spalle e ripreso a camminare, pensando a quando la cupola sarebbe tornata ad essere il magnifico cavolo spendente che è, con buona pace dei fans della cancellazione della Storia.

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