Questo nuovo libro di Giorgio Ficara (Riviera, Einaudi, pagg. 181, euro 18,50) inizia con unannotazione struggente, secondo cui nel dialetto di Rapallo, il dialetto che cullava lautore bambino nella cittadina di cui è originaria la famiglia materna, vi è unespressione che può tradursi nello stesso tempo «il mio mare» e «il mio male». Ricordare, riscrivere il proprio luogo può diventare fonte di sofferenza e malinconia. Ficara si chiede, nella densa premessa, se esistono ancora i luoghi come autonome entità, e se e come possano essere tradotti in parole.
Un dubbio attanaglia il critico rigorosissimo e il saggista raffinato ed esigente che Ficara è stato finora. Nessun piccolo colpo di martello nella materia del linguaggio, si dice, riuscirà a rendere quel mare «fermo e luminoso» che ha davanti. Poi il dubbio, in una passeggiata in bicicletta tra le meraviglie del Tigullio, si stinge, dà spazio alla speranza, mentre su tutto aleggia unindefinibile ma «sovrastante» felicità. Il resto, cioè tutto il libro, è frutto di questa felicità. Una felicità che conosce ragionamento e memoria, che comprende il contrario di sé, e incarnandosi nel linguaggio si muta con alchimie sottili in uno stile sorvegliato e smagliante. Il luogo è la Riviera ligure di Levante, tra Rapallo e Portofino. La natura, e valga per tutte la pagina dedicata al mite fiore solare detto «campanella», è descritta con accenti di sorprendente vigore non impressionistico, ma metastorico e metafisico.
E poi, quasi per contrasto, cè la mondanità. Uscire di casa a Rapallo negli anni Sessanta era come entrare in una fiaba. Nella quale può capitare allautore adolescente di incrociare a bordo di un motoscafo John Wayne, di salire su un palcoscenico sul quale compaiono Onassis e Churchill, Tyrone Power e Rex Harrison, Ava Gardner e Humphrey Bogart, Frank Sinatra e Clark Gable, Ali Khan e Rita Hayworth, che dal ristorante offre una torta sontuosa ai bambini del paese. A Rapallo si incontrano Pound, Yeats, Max Beerbohm. Poesia, profezia, mito, ironia mondana sembrano essersi dati convegno lì. Ficara ce lo racconta con elegante naturalezza. Poi la sua felicità prende ancora più quota, in storie radicate nella memoria di quei luoghi. Quella del Saraceno, che mette in scena la vicenda di passione e di morte della bella Maria e del moro Achmet, con una prosa esattissima, con una capacità di rendere i dettagli che raggiunge il vertice quando lautore ci mostra Achmet resistere e morire su «un alto terrazzo, tra i gelsomini e le zagare». E poi la storia di Sinam, nato Scipione Cicala, genovese, e diventato ammiraglio della flotta turca.
Cè in Ficara unattenzione allo spirito dei liguri che chiama a riflettere. Ogni ligure in procinto di partire somiglia a Colombo, la cui forza era non tanto nella brama di infinito, quanto nella volontà concreta di scoprire, arricchire, tornare. Ci sono pagine saggistiche sul senso che ha lemigrazione per i liguri, attenti al commercio, agli affari, inclini a far avanti e indietro sullAtlantico, rispetto a quella per esempio dei siciliani, più disperata, drammatica e senza ritorno. E cè soprattutto il racconto che vede protagonista il capitano Perasso, da Camogli, che salva la sua nave su cui il carico di carbone comincia a bruciare portandola sino allisola di Tristan da Cunha, dove con gli uomini del suo equipaggio va incontro a unavventura che sa di albatros e di antartiche solitudini. Alla fine, il «luogo felice» è quello cui dedicarono pagine Smollet, Andersen. Manzoni, Ruskin, Maupassant, Valéry Larbaud, D.H. Lawrence.
È il luogo dove Montale stava al riparo di un caffè con Sbarbaro. E dove Giorgio Ficara, non immemore dei suoi conterranei migliori, ritrova oggi per la gioia dei lettori la sua originale libertà poetica di narrare di quando il suo amico mozzo Agostino Gnecco gli parlava della bellezza dei fondali, gli ricordava con immensa saggezza che il mare viene sempre prima della terra.
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