Robert Capa, gli occhi che hanno fatto notizia

Il primo servizio famoso fu nel 1931, per Trotskij. L'ultimo, fatale, sulla guerra in Indocina, nel '54

Robert Capa, gli occhi che hanno fatto notizia

Robert Capa, il più grande fotoreporter del Novecento, nasce Endre Ern Friedman, centodieci anni fa a Budapest. Per firmare i suoi scatti sceglie presto uno pseudonimo: nome hollywoodiano, Robert, e cognome facile da ricordare, Capa, che nella sua lingua madre indica un attrezzo per lavorare la terra. Ebreo ungherese e socialista, lascia casa a 17 anni e approda a Berlino, dove si dà al giornalismo: capisce subito che un'immagine vale più di mille parole e che la piccola Leica che tiene in tasca può portarlo in prima pagina (come quando, nel '31, con un escamotage s'infila alla conferenza che Lev Trotskij sta tenendo all'università di Copenaghen e realizza un iconico servizio sul «grande dissidente»).

Capa è già Capa prima di essere Capa: fulmineo nello scatto, intuitivo, muscolare, empatico, macho quanto basta. La sua carriera si brucia in pochi decenni, dagli anni Trenta alla metà degli anni Cinquanta, prima di essere vittima, lui che aveva coperto i peggiori conflitti in Occidente, della guerra che sentiva meno sua, quella in Indocina. Salta su una mina antiuomo mentre seguiva dei soldati in un campo: i rullini che aveva con sé si sono conservati e alcune di queste foto sono in mostra a Rovigo, nelle sale di Palazzo Roverella, per «Robert Capa. L'opera 1932-1954» (fino al 29 gennaio), esposizione corposa, curata con intelligenza da Gabriel Bauret e realizzata con 366 foto selezionate dagli archivi dell'agenzia Magnum Photo che Capa stesso aveva contribuito a fondare. Non è l'unico omaggio al suo talento fotografico: anche il Mudec di Milano, con «Robert Capa. Nella storia» (fino al 19 marzo), presenta un bel viaggio in ottanta immagini, scelte da Sara Rizzo.

I lavori del reporter sono arcinoti: alcuni sono entrati nei libri di storia e nell'immaginario collettivo, come Morte di un miliziano lealista o quella del contadino siciliano che indica a un soldato americano dove sono andati i tedeschi, per non parlare degli scatti sullo sbarco in Normandia, a Omaha Beach, cui Steven Spielberg ha dichiarato di essersi ispirato per Salvate il soldato Ryan. A Rovigo li troviamo nella sezione centrale della mostra e poi stampati sul Time (la seconda parte dell'esposizione si concentra sulle pubblicazioni cartacee, presentando le riviste cui Capa collaborava con assiduità): il reporter, oggi si direbbe embedded, alla divisione dei primi soldati alleati chiamati a sbarcare in Francia aveva con sé due macchine fotografiche e consumò due rullini per ciascuna. Si affrettò, una volta al sicuro, a inviarli in redazione, a Londra: Time aspettava con ansia quelle foto straordinarie, ma il caso volle che di turno fosse un tecnico inesperto, che chiuse troppo a lungo le porte dell'essiccatore dentro cui si mettevano i rullini.

Risultato: scatti da buttare, tranne undici parzialmente danneggiati. Leggendari, comunque. «Leggermente fuori fuoco» li definì il Time nella didascalia in pagina, attribuendo la colpa alla mano del fotografo, tremolante per l'emozione. Cosa che fece infuriare Capa, spingendolo di lì a poco a fondare con Henri Cartier Bresson e David Seymour l'agenzia indipendente Magnum Photo per tutelare i fotografi e renderli proprietari del copyright del loro lavoro e delle didascalie correlate. Quel «leggermente fuori fuoco» sarà poi il titolo di un fortunato memoir di guerra (in Italia edito Contrasto) firmato proprio da Capa, che non difettava di ironia né di consapevolezza del mestiere.

La mostra a Palazzo Roverella illustra il suo talento lungo nove sezioni, partendo dalle fotografie degli esordi e da quelle realizzate in Spagna, durante la guerra civile, là dove Capa conobbe la polvere della trincea a fianco dei militanti antifranchisti e dove, senza vedere la messa a fuoco, scattò la foto del miliziano che lo rese famoso. Lo seguiamo, grazie a un felice allestimento, nei reportage in Cina, durante la crisi cino-nipponica immortalata lungo le ferrovie, e poi al seguito degli americani in Europa, Italia inclusa, durante la Liberazione, per poi virare a Est, in un viaggio storico in Russia e in Ucraina con lo scrittore John Steinbeck, scortati entrambi da funzionari sovietici che vagliavano ogni cosa, passando per Israele, con le intense immagini dei primi coloni arrivati nel '48, e, infine, l'ultimo incarico in Indocina dove trova la morte.

In mezzo, ben documentato in mostra, c'è un Capa più intimo, quello dell'amore per Gerda Taro, anche lei fotoreporter di guerra d'assalto, morta appena a 25 anni in Spagna, e un Capa in pausa dai conflitti negli anni Cinquanta, quando coltiva la passione

per Ingrid Bergman, per il gioco, per i cavalli e allena la capacità di ritrarre gli artisti (Picasso, Matisse). Capa se n'è andato, ha detto Cartier-Bresson, «all'apice della gloria»: ha fatto Robert Capa fino all'ultimo.

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