Ci sono vie della Capitale dove i negozi gestiti da stranieri, ormai, sono diventati la maggioranza. Nell’estate del 2020, quella successiva al primo lockdown, vi avevamo raccontato di come in viale Emanuele Filiberto, a due passi dalla basilica di San Giovanni in Laterano, alcune attività storiche, costrette a chiudere per colpa della crisi, erano stati rimpiazzate dai soliti minimarket. E così, tra bazar, ristoranti etnici, sartorie e lavanderie, le insegne esotiche avevano preso il sopravvento.
Non succede soltanto nel rione Esquilino, quartiere multietnico per antonomasia, ma anche nelle zone residenziali e nel centro. Nell’insospettabile via di Valle Melaina, ad esempio, a Montesacro, in cinquecento metri si contano tre piccoli suk gestiti da cittadini bengalesi. Secondo il quotidiano Il Tempo, che cita i dati della Camera di Commercio di Roma, dall’inizio della pandemia nella Capitale 200 negozi di alimentari di proprietà di cittadini italiani sono stati costretti ad abbassare la serranda.
Per contro, i minimarket bengalesi sono stati protagonisti di un vero e proprio boom. Da 871 esercizi nel 2019, nel terzo trimestre del 2021 sono diventati 1092: 221 in più, nonostante la crisi. Tanto che ormai su 172mila imprese presenti nella Capitale, il 26,9 per cento ha al timone un cittadino straniero. In proporzione, una ditta su quattro fa capo ad imprenditori non italiani e, scendendo nel dettaglio, una su cinque è in mano ad extracomunitari. Per un terzo si tratta di cittadini del Bangladesh.
Stando ai dati della Camera di Commercio gli esercizi commerciali che gestiscono sono più longevi rispetto a quelli dei colleghi stranieri. Alcuni di loro, secondo un’inchiesta ancora attuale, pubblicata un paio di anni fa sul Corriere della Sera, possono permettersi affitti che arrivano a sfiorare i 4mila euro al mese, ad esempio nel centro storico o nelle zone della movida, dove sono il punto di riferimento di chi cerca alcolici disponibili h24 a prezzi contenuti, talvolta anche in barba alle ordinanze cittadine.
Nelle zone "giuste", è soprattutto con le bevande che si fa il grosso dell’incasso, spesso senza neppure emettere scontrini. Sempre i numeri forniti dalla Camera di Commercio capitolina parlano di 2.897 imprese straniere chiuse dal dicembre 2020 al settembre del 2021, di cui 43 minimarket. I fruttivendoli bengalesi che hanno dovuto abbassare la serranda, però, sono stati soltanto 26, e non c’è stata alcuna variazione, ad esempio, nel numero dei fiorai del Bangladesh.
Insomma, i bengalesi sono quelli che più di tutti hanno resistito allo tsunami pandemico, anche tra gli stessi imprenditori stranieri, nonostante lockdown e limitazioni. Può capitare che siano pochi soggetti a possedere più di un’attività. Repubblica raccontava di un giro di prestiti all’interno della comunità bengalese, che concentra nelle mani di alcuni la maggior parte dei negozi. Insomma, chi ci lavora, in più di un caso, non è il vero proprietario, ma lo fa per pagare interessi e debiti.
A Roma i più penalizzati dalla pandemia, comunque, sono stati i commercianti italiani, almeno per quanto riguarda i negozi di alimentari.
Il Covid ha spazzato via 196 attività gestite da connazionali, con un calo dell’11 per cento nel terzo trimestre del 2021 rispetto allo stesso periodo del 2020. Il risultato è che oggi dietro al bancone della maggioranza delle botteghe che vendono generi alimentari nella Capitale - il 62,2 per cento - c’è un cittadino immigrato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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