“Le mascherine? Ci arrangiamo come possiamo, qualcuno le aveva già e le ha distribuite ai colleghi, qualcuno è riuscito a comprarle su internet. Io ed altri ci siamo attrezzati con delle mascherine da agricoltura che proteggono le vie respiratorie”. A parlare è un medico di base della Capitale, uno dei tanti impegnati a fronteggiare l’emergenza coronavirus con mezzi decisamente inadeguati.
“È come andare in guerra con uno stuzzicadenti”, ci dice amareggiato. “Dalla Asl – continua il dottore – non è arrivata nessuna fornitura, neppure una mascherina chirurgica”. Una situazione drammatica, che riguarda sia i medici di famiglia che quelli della continuità assistenziale. Tanto che qualche giorno fa i sindacati hanno scritto al presidente della Ragione Lazio Nicola Zingaretti denunciando la mancanza dei dispositivi di protezione individuale e chiedendo l’esecuzione dei tamponi per tutto il personale sanitario. Per scongiurare che i nostri medici si trasformino in degli untori. Un appello raccolto anche dai consiglieri regionali della Lega che hanno intimato al governatore di attivarsi “per garantire la giusta tutela sia dei camici bianchi che dei pazienti”.
“Non riteniamo giusto che i medici debbano ricorrere all’utilizzo di mezzi di protezione non concepiti per l’ambito sanitario per garantirsi un sufficiente livello di tutela”, dice il dottor Ermanno De Fazi, vicesegretario regionale dello Smi Lazio. Pur essendo munite di un filtro, infatti, le mascherine per uso agricolo non sono adattabili alle esigenze degli operatori sanitari e non bastano a schermarli dal virus. “Le mascherine sono solo la punta dell’iceberg – annota Pier Luigi Bartoletti, vicepresidente dell’Ordine dei Medici di Roma – il sistema di protezione da agenti patogeni sconosciuti è un combinato di tanti fattori: servono guanti, camici, cuffie, occhiali e soprattutto la formazione”.
Elementi essenziali per questa categoria di professionisti che svolge un ruolo strategico nella gestione dell’emergenza. Sono loro la prima linea. Quelli a cui i pazienti si rivolgono quando stanno male, quelli a cui tutti in queste settimane critiche chiedono consigli e indicazioni. Sono la trincea della lotta al Covid-19. “Quando veniamo contattati facciamo un triage telefonico – spiega De Fazi – per capire se ci sono presupposti che facciano pensare al coronavirus o se si tratta di forme influenzali di poco conto. Nel primo caso si affida il paziente al servizio di igiene e sanità pubblica della Asl sennò lo seguiamo con frequenti contatti telefonici”. Sì perché le sale di attesa ai tempi del coronavirus non sono più le stesse. Si sono svuotate. “In media prima vedevo un centinaio di pazienti a settimana, adesso non più di quattro”, racconta Bartoletti. Si procede per appuntamento ed i pazienti sprovvisti della mascherina vengono rimandati a casa.
La regola è: cercare di evitare visite inutili gestendo gli utenti "da remoto". Ma non si può colmare tutto con la teleassistenza e le ricette dematerializzate. Ci sono situazioni in cui il medico non può nascondersi dietro a un monitor. Situazioni in cui le visite domiciliari non si possono rimandare perché ci sono malati cronici, pazienti oncologici o reduci da interventi difficili che devono essere seguiti. Persone che non presentano sintomi necessariamente riconducibili al coronavirus ma che potrebbero essere comunque infette. In casi del genere i dispositivi di sicurezza sono irrinunciabili visto che – per ovvie ragioni – il medico non può tenersi a più di un metro di distanza dal paziente.
“Ci ritroviamo in una situazione di estremo pericolo perché abbiamo perso il link epidemiologico, il virus comincia a circolare anche a Roma e l’unica difesa è il distanziamento sociale”, spiega il dottor Bartoletti.
“È una guerra che noi medici stiamo combattendo senza armi, sia dal punto di vista terapeutico che dal punto di vista delle protezioni”, aggiunge. E se le cose non cambiano, avverte, “rischiamo di trasformarci in medici monouso”.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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