È una ripartenza a metà quella dei commercianti romani. Nel giorno in cui la città sarebbe dovuta entrare nel vivo della tanto attesa fase due, almeno un esercente su tre ha deciso di tenere la serranda abbassata per protesta. È il primo grande sciopero del commercio romano. Lungo le strade del centro storico non si respira aria di libertà.
Le strade dello shopping sono una via crucis di saracinesche chiuse, su ognuna si legge lo stesso messaggio: "Senza aiuti del governo non possiamo riaprire, migliaia di dipendenti a rischio". Sono una minoranza quelli che hanno fatto ritorno in negozio: "La ripartenza qui ha un senso prevalentemente simbolico, perché stare chiusi o stare aperti è la stessa identica cosa", dice allargando le braccia il titolare di un negozio di abbigliamento da donna in via Ottaviano, a due passi da piazza Risorgimento. Intere zone del centro città si sono desertificate.
È il caso di via Conciliazione. Lo stradone che conduce alla maestà di San Pietro è una landa desolata. Lo sciame di pellegrini che di solito affolla la zona è un ricordo sbiadito. Gli unici che si incontrano sono i negozianti, che si sono dati appuntamento all'ombra del "Cupolone" per strillare tutta la loro delusione. Qui si lavora in base alla stagionalità, da marzo a ottobre, e non c'è più margine per recuperare i mesi di mancati guadagni.
"Noi per un anno non possiamo lavorare, viviamo di turismo, e il turismo prima di marzo 2021 non ripartirà", denuncia il proprietario di un negozio di articoli religiosi. "I nostri dipendenti ancora aspettano la cassa integrazione", aggiunge. Sono circa 700 le persone occupate nelle attività commerciali a ridosso della Basilica: di loro, assicurano gli imprenditori, nessuno ha percepito nulla. "Stiamo cercando di aiutarli noi, anticipandogli le somme, ma - si domanda ancora il nostro interlocutore - per quanto ancora potremo farcela?".
È questa la principale preoccupazione di di chi oggi si è ritrovato in piazza: allontanare dal baratro della disoccupazione centinaia di famiglie. "Se non vengono salvaguardati i dipendenti, che sono il cuore di ogni azienda, l'Italia muore", ragiona il titolare di un bar. L'uomo non ha dubbi: "La fase due per noi rimane un punto interrogativo". Il network di negozianti che hanno aderito allo sciopero conta centinaia di esercizi, bar, negozi di abbigliamento, tabaccai e via dicendo. Le loro storie si assomigliano tutte quante. "I nostri dipendenti - spiega un'imprenditrice sulla quarantina - sono ridotti alla fame, alcuni di loro mi dicono che sopravvivono a pane e scatolette di tonno, in tanti sono stati costretti a mettersi in fila alla Caritas per un pacco alimentare, e per noi, che li consideriamo parte della famiglia, è stato un colpo al cuore".
Un po' di ossigeno ricomincerà a circolare dal 3 giugno, giorno in cui sarà possibile spostarsi da regione e regione, ma non sarà comunque sufficiente a garantire i livelli occupazionali pre-pandemia. "Senza aiuti - spiegano gli esercenti - saremo costretti a licenziare". Una sforbiciata che, secondo i calcoli dei datori di lavoro, potrebbe arrivare a costare il posto all'80 per cento del personale. Le richieste per evitare il disastro sono: cassa integrazione per i dipendenti fino ad allarme mondiale cessato e finanziamenti a fondo perduto o a tasso zero, con durata minima di sei anni e restituzione rateale dal terzo.
"Non si può ripartire senza benzina, ci è stato messo a disposizione un fondo di garanzia che è solo un sistema per farci indebitare ancora di più", sostiene Giulio Anticoli, storico commerciante del Trieste-Salario e presidente delle associazioni "Botteghe Storiche" e "Roma Produttiva". La prova sta nel numero di aziende che hanno fatto ricorso alla misura: solo 130mila su 5milioni.
Il risultato? Si andrà avanti grazie al buon cuore, laddove ci fosse, di fornitori e affittuari disposti a rinviare ancora i pagamenti. "Il governo si è chiamato totalmente fuori, ci ha fatto capire che dobbiamo cavarcela da soli, è veramente assurdo, qui rischia di collassare l'intera economia", continua Anticoli. Le necessità del comparto non sono sconosciute a Palazzo Chigi, tanto che il premier Giuseppe Conte le ha ricordate nel corso dell'ultima diretta, citando le parole dei manifesti comparsi sulle saracinesche romane.
"Io confido nel buonsenso della politica, abbiamo bisogno di strumenti reali, la messa in sicurezza del Paese è stata addebitata alle imprese, non ce la possiamo fare a sostenerla da soli", attacca il presidente di "Roma Produttiva", che chiede un incontro con il governo e se la prende con i tecnici. "Di tanti esperti - ragiona - sembra che nessuno abbia aderenza alla realtà". Insomma, nelle tante aree della città dove l'economia è legata a doppio filo al turismo, la ripartenza è ancora un orizzonte lontano.
"Da oggi entriamo in trincea, la fase due sarà una guerra e la iniziamo con la consapevolezza che le imprese saranno le prime vittime, come è
successo con la crisi del 2008". Il pericolo, secondo il rappresentate della categoria, è che si arrivi addirittura alle rivolte sociali: "La gente quando ha fame scende in piazza e qui ormai siamo sull'orlo del default".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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