Rosa Matteucci, favola colta su una famiglia in (de)caduta libera

Nei primi anni Sessanta Alberto Arbasino era a Londra e poté assistere alla messa in scena di un’opera nata dalla penna di Ivy Compton-Burnett, la «Grande Signorina» delle lettere inglesi. In quell’occasione a sbalordirlo non fu tanto il testo della pièce, né la bravura degli attori, quanto la bizzarra genìa che costituiva la quasi totalità del pubblico. Gli spettatori parevano usciti dalle illustrazioni di una grottesca fiaba per adulti: «Vecchie volpine o cavalline o canine con cloches di petali fuligginosi; supervergini obese e sinistre...». Tutti fan di una scrittrice la quale, oltre ad essere adorata dalla più accorta critica letteraria, aveva per l’appunto un pubblico fedele, orgogliosamente idiosincratico; un pubblico disperso in mezza Inghilterra che attendeva per mesi l’uscita di ogni suo libro e appena giunta la ghiotta notizia aveva preso il treno e si era precipitato a teatro.
Esiste qualcosa di simile, oggi, in Italia? È probabile di sì: tutto lascia sospettare che anche Rosa Matteucci - la massima scrittrice italiana, parola di Carlo Fruttero - disponga di un pubblico «scelto» di esprits forts, sul quale gravano peraltro molti interrogativi.
Che faccia avranno, i lettori della Matteucci? Che partito votano? Sono segretamente malvagi? E i prefetti, sono stati allertati? In ogni caso, è fuor di dubbio che gli ammiratori della scrittrice di Orvieto saluteranno la pubblicazione del romanzo Tutta mio padre (Bompiani, pagg. 286, euro 17,50) come un evento, perché il romanzo spiega finalmente le ragioni di quella «sindrome da caduta sociale», con annessa perdita d’aureola, che in Lourdes costituiva solo lo sfondo. Ecco da dove veniva il rattenuto risentimento verso gli ipocriti viaggiatori del treno bianco: dal dolore per l’esclusione da un mondo al quale ci si riteneva destinati per nascita. Il padre Giovanni, alias Orso il fantascientifico, ha dissipato al gioco alcuni grandi patrimoni. Inoltre non l’ha fatto alla roulette cara a Dostoevskij e a Landolfi, bensì al gioco del lotto, caro a Balzac e alla Serao. Scelta tragica, visto che lungo la linea materna si risaliva piuttosto in direzione della Russia. E proprio dalla Russia discende quel che forse è realtà, forse una leggenda familiare, o forse la pura e semplice concrezione di ciò che Freud chiamava «il romanzo familiare del nevrotico». La dote della protagonista, la «figlia», consiste in un paio di guanti di capretto appartenuti allo zarevic, lasciati in eredità dalla zia Lella. Adottata da un principe, la zia era infatti diventata, «da quella miserabile orfana che era, un’ereditiera stramiliardaria». Non solo: «Il diabolico legato testamentario disponeva che a cento anni dalla morte dello zar Alessandro II, cioè nel 1981, il possessore dei guantini aveva diritto a...» e giù un elenco impressionante di terre, miniere, fattorie. Una dote da regina, peccato che uno dei guanti fosse stato nascosto e che zia Lella, morendo, non avesse lasciato una traccia né un indirizzo, ma un’indecifrabile filastrocca. Da lì, da quell’unica ricchezza che il padre non può dissipare, la lunga sequenza di ricerche e interpretazioni ermetiche, mentre intanto la famiglia precipita nel baratro.

Che si tratti di ferite ancora aperte, e che Tutta mio padre non sia in alcun modo l’elaborazione di un lutto ma, semmai, la sua museificazione, sta a testimoniarlo la struttura stessa del romanzo: che non segue il corso del tempo, ma passa e ripassa su un crollo ancora bruciante, continuando ad interrogarsi su quello che avrebbe potuto essere, e non è stato.

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