L'Orso russo si è rimesso a ballare per tutto il 2006, ridiventando protagonista della politica internazionale. Ma è più volte inciampato sui propri piedi o li ha pestati ad altri, trovando consolazione nel ballo col drago cinese: un partner ieri minore, oggi ben più importante ma molto attento alla propria danza senza urtare troppo gli altri danzatori, ben più decisivi per il suo sviluppo. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha tenuto l'altro giorno una conferenza stampa per mettere in risalto i successi di Mosca nel 2006: ha presieduto il G8, il Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, il Consiglio di cooperazione economica del mar Caspio; dopo 12 anni di attesa, concluso nel novembre scorso l'accordo con gli Stati Uniti, sta per entrare nell'Organizzazione mondiale del commercio. «La Russia è diventata forte e sicura di sé. Negli affari internazionali è in crescente aumento il fattore russo. Può essere una sorpresa spiacevole per qualcuno, ma siamo pronti a cooperare con tutti».
Il 2006, dunque, come l'anno del ritorno alla grande del Cremlino, dopo il trauma del collasso dell'Unione Sovietica nel 1991. È il coronamento della strategia di Putin, da lui fissata nel 1994 nella sua tesi per il dottorato di ricerca, sull'uso delle risorse naturali come strumento di potenza, nuovo arsenale. Quale maggior produttore di gas al mondo e secondo di petrolio dopo l'Arabia Saudia, la Russia è inoltre attore nelle istituzioni economiche e finanziarie internazionali, dove fino a pochi anni fa, coperta di debiti e bisognosa di aiuti, doveva presentarsi col cappello in mano. Il punto più alto è stato il G8 a luglio a San Pietroburgo, col pagamento anticipato dei debiti grazie a gas e petrolio. È stato ballo di gruppo di una sola estate, a cui sono seguite posizioni contrastanti o antagoniste con gli altri sette grandi sulle maggiori questioni mondiali, come il nucleare iraniano.
Il Cremlino ha fatto di tutto perché il mondo, gli Stati Uniti in primo luogo, prendessero nota della Russia: e in tanti non si sono entusiasmati per ciò che hanno visto. La Russia è tornata, ma non invoglia a stenderle tappeti rossi. Lo si è visto già all'inizio del 2006, quando Mosca chiuse il gas all'Ucraina della rivoluzione arancione che rifiutava il nuovo prezzo quadruplicato. La motivazione era di applicare prezzi di mercato, ma era palese anche la ritorsione politica. Proprio ieri, dopo il rientro della rivoluzione arancione con la divisione del potere tra Yushenko, presidente, e il suo rivale Yanukovich divenuto premier, Putin è andato in visita a Kiev, dopo che lo stesso Yushenko, già aspirante a entrare nella Nato, dice ora che non è il caso.
Il ballo dell'estate è finito con l'autunno, stagione di delitti politici in provincia e a Mosca, come quello di Anna Politkovskaya, fino all'uccisione di Litvinenko a Londra col polonio: operazione fatalmente vista come di antico stampo sovietico. In parallelo, il mancato nuovo accordo di partnership con l'Europa per il veto polacco, in risposta al rifiuto di Putin di ratificare la Carta sull'Energia firmata anni fa da Mosca con l'Unione. E si è compiuto in questi giorni l'assalto alla Shell, lanciato su questioni ecologiche, costretta a cedere a Gasprom la maggioranza nel suo progetto da 20 miliardi di dollari a Sakhalin.
L'anno si chiude quindi col ritorno dell'Ucraina nella sfera di influenza, laccaparramento di una grande impresa energetica straniera e con un'altra guerra del gas: alla Georgia, troppo vicina a Stati Uniti e Nato, mentre Putin non fa che esaltare la potenza militare e il rafforzamento dell'arsenale nucleare, glorificando, come ha fatto il 20 dicembre, antica «festa dei cekisti», il ruolo dei servizi, nella continuità di Ceka, Kgb e ora Svb-Fsb.
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