In un sacchetto tracce dello stupratore

La cronaca, nella sua crudezza irrimediabile, manifesta di frequente una natura irriverente che spazza senza alcun riguardo luoghi comuni, falsi miti, invenzioni propagandistiche e leggende metropolitane. Adesso la cronaca punta su Bologna e ne mette a nudo i bisogni e le paure che l’accomunano a tante città italiane nell’era convulsa delle invasioni-migrazioni. La diversità di Bologna, nel contesto politico-favoloso del «modello emiliano», si dissolve e si hanno fondati sospetti che il mito della città petroniana non abbia mai avuto fondamento.
Tutto ciò che emerge in questi giorni, dal ripetersi di intollerabili violenze che nessuno tenta di impedire al degrado di periferie segnate dalla presenza di bande di extracomunitari, racconta una storia diversa, che si snoda da anni, da prima ancora che diventasse evidente la crisi dei poteri ufficiali e ufficiosi, concorrenti e consociati, della Prima Repubblica.
La supremazia elettorale del Pci nella città non era l’aspetto ideologico del «mito Bologna», era il riconoscimento di un’efficacia amministrativa e di un impegno innegabili, ma testimoniava anche il desiderio di un ordine protettivo, di là dell’adesione politica, di un sistema compiuto che senza essere del tutto liberale garantiva tranquillità e benessere. In una cornice di produzione capitalistica di prim’ordine.
Spesso il mito è come l’eco, sopravvive alla realtà che lo genera. La favola di Bologna rossa isola felice – se mai è stata un mito - è sopravvissuta anche alla tenuta della buona amministrazione, che s’è inesorabilmente usurata col tempo.
L’ideologia c’entra poco o nulla: è cambiata la qualità degli amministratori, è cambiata l’aria italiana, nuovi arrivi hanno mutato il paesaggio umano e gli schemi, i compromessi e i costi che caratterizzavano un certo rassicurante equilibrio sono saltati.
Quando si è profilata la svolta realizzata da Guazzaloca il problema della sicurezza, della tranquillità e della qualità della vita era già avvertito con inquietudine e sofferenza malamente coperti dalla retorica della sinistra. Guazzaloca ha vinto su un programma che prometteva sicurezza, efficienza, riduzione degli sprechi e delle posizioni parassitarie. Il piccolo Cremlino emiliano non è caduto per folgorazione ideologica, è caduto per una maggioritaria richiesta di ordine e di sicurezza, di una quotidianità meno ansiogena.
Gli ultimi anni non hanno portato, nelle grandi città, rose e fiori, perché soprattutto nelle aree importanti e ricche si sono radicati gruppi nuovi ed eterogenei d’immigrati, molti irregolari che hanno dilatato ed esasperato l’invadenza e l’aggressività di quel mix d’illegalità che con eufemismo ridicolo definiamo «micro», in una cornice di difficoltà economiche.
Bologna, fuori dal mito che non c’è, non è sfuggita a questa situazione. E Sergio Cofferati ha vinto non per un ideologico ritorno di fiamma a sinistra, ma per la riaffermazione di una domanda genericamente «di destra», una richiesta di sicurezza, di protezione, di ordine. Molti elettori si sono illusi che chi aveva guidato la potente Cgil, garante d’ordine comunque, anche con solidarietà e ispirazioni illiberali, potesse rimettere in riga la realtà coi suoi parametri impazziti.
È paradossale, ma è così: se c’è un mito Bologna ancora vivo, Cofferati è di destra. Il sindaco della città petroniana sa perfettamente perché è stato votato, tant’è che quando ha avvertito il disagio di molti cittadini ha posto il problema della legalità a una sinistra radicale che crede nel mito e non sa come andrebbe amministrata una città.


Basta, la cronaca ha mostrato che la regina dei municipi è nuda. Dopo un’abboffata di retorica e di propaganda i bolognesi fanno i conti con la realtà, che non può essere dominata col blablabla della solidarietà a tutti i costi e con la mitologia bugiarda.

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