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Sla, scoperta la prima cura contro un gene specifico

Nuova speranza per i malati di Sla: un farmaco riuscirebbe a bloccare l'evoluzione di un gene responsabile della malattia. Ecco i risultati della ricerca

Sla, scoperta la prima cura contro un gene specifico

Nuove speranze di cura e guarigione per una malattia terribile come la Sla (Sclerosi Laterale Amiotrofica): il farmaco Tofersen riuscirebbe a bloccare un gene, Sod1, direttamente responsabile dell'evoluzione della malattia. Lo studio è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine che mette in luce i risultati condotti su un gruppo di 108 pazienti con diversa evoluzione della malattia.

La scoperta

I ricercatori hanno scoperto il ruolo del Toferses sul gene difettoso che si ritiene rappresenti circa il 2% di tutti i casi di malattia: attualmente in fase 3, lo studio è stato esteso oltre i sei mesi previsti grazie alle ottime indicazioni dei dati. Tutti i partecipanti hanno continuato ad assumere il farmaco per altri sei mesi e sono stati monitorati per vedere se l'assunzione del trattamento per un periodo più lungo portasse a un effetto maggiore. Ebbene, evidenze hanno mostrato una riduzione del gene Sod1 e la quantità dei livelli di proteine ​​​​del neurofilamento. Il Tofersen sembra così raggiungere l'obiettivo terapeutico con un deciso rallentamento della progressione della malattia nelle fasi successive dello studio.

"Effetto biologico e benefico"

"Questi ultimi risultati forniscono una crescente fiducia sul fatto che Tofersen stia avendo un effetto sia biologico che benefico nelle persone che convivono con Sod Mnd (malattia del motoneurone, ndr)", ha affermato il prof. Brian Dickie, Direttore della Ricerca Sviluppo presso l'Associazione Mnd. "Forniscono anche un'importante 'prova di concetto' che simili approcci basati sulla terapia genica possono essere utili per altre forme della malattia", si legge sul comunicato stampa dell'Associazione. Al momento, però, il farmaco non è stato ancora approvato per la cura della Sla in nessuna parte del mondo. Si trova in fase revisione da parte della Food and Drug Administration degli Stati Uniti mentre il Regno Unito ha chiesto un accesso anticipato per l'approvazione da parte di importanti neurologi.

Il ruolo dell'Italia

Questa ricerca parla anche italiano: infatti, ha preso parte alla sperimentazione anche il Centro regionale Esperto per la Sla dell'Ospedale Molinette della Città della Salute di Torino che fa parte del Dipartimento di Neuroscienze "Rita Levi Montalcini" dell'Università del capoluogo piemontese. Il suo direttore, il prof. Adriano Chiò, si è detto entusiasta della "straordinaria importanza di questo risultato". Gli operatori del Centro hanno ringraziato i pazienti ammalati di Sla e i loro familiari di aver partecipato a questa fondamentale ricerca pur con tutte le difficoltà vissute a causa della pandemia.

Cos'è la Sla

La Sla, conosciuta anche con il nome di "malattia di Lou Gehrig", è un processo neurodegenerativo dell’età adulta che determina la perdita dei motoneuroni spinali, bulbari e corticali, fino a portare il malato alla completa paralisi dei muscoli volontari che coinvolgono anche quelli respiratori. Come scrive la Fondazione Italiana di Ricerca per la Sclerosi Laterale Amiotrofica, le due tipologie di motoneuroni coinvolti nella malattia sono i "motoneuroni superiori, quelli cioè che collegano il cervello al midollo spinale, e i motoneuroni inferiori, che collegano i neuroni motori superiori dal midollo spinale a tutti muscoli del corpo". Questi neuroni subiscono una interruzione quando compare la malattia non riuscendo più a portare le informazioni elettriche da cervello e midollo spinale fino ai muscoli che si atrofizzando causando una paralisi.

Finalmente, però, questo farmaco consente un miglioramento ai pazienti con il blocco del gene Sod1 e un miglioramento che dura nel tempo. "I pazienti con mutazioni Sod1 sono relativamente rari, ma questo studio cambierà il futuro degli studi", ha dichiarato la professoressa Dame Pamela Shaw, doce di Neurologia e direttrice di SITraN presso l'Università di Sheffield.

"Non solo possiamo guardare altri geni che causano anche la Mnd, ma ora abbiamo un biomarcatore che possiamo misurare per vedere se un trattamento sta funzionando che renderà i trials clinici molto più efficienti. In futuro saremo in grado di dire in tre o sei mesi se una terapia sperimentale sta avendo un effetto positivo".

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