San Giuseppe, il papà che non fece mai festa

Oggi, San Giuseppe, è la festa del papà, ma che papà era Giuseppe? Come aveva accettato, vissuto, sviluppato, concluso, quella sua paternità donata, frutto di un’ardua rinuncia? I vangeli non aiutano a tracciare il suo identikit di genitore: Marco e Giovanni quasi lo ignorano. Per Matteo e Luca è soprattutto l’esecutore di angelici ordini. Matteo però aggiunge una decisiva connotazione spirituale. Quando Giuseppe sa che la sua fidanzata è incinta per virtù dello Spirito Santo, pensa di ripudiarla, ma finisce per restare impastoiato alla santità perché - scrive Matteo - «era un uomo giusto». E Giusto è il titolo di un romanzo di Giovanni Donna d’Oldenico, edito da Marietti (pagg. 155, euro 15). Un libro in cui l’autore, medico e padre di otto figli, aggiunge le tessere dell’immaginazione narrativa allo scarno mosaico storico che di Giuseppe ci hanno lasciato i vangeli.
È un uomo morente quello che racconta e si racconta all’inizio del romanzo, che percorre a ritroso le coordinate della sua eccezionale esistenza. Di fronte ha un ragazzo magro, loquace, eppure in grado di guardarti fisso, a lungo, avvolgendo lo sguardo in un silenzio imbarazzante. Un giovane - in sostanza il Gesù narrato dai vangeli apocrifi - che ama gli scherzi. E lui, Giuseppe, non è a disagio per la goliardia del figlio, per qualche sua apparentemente discutibile amicizia. Ha il suo modo di educarlo alla vita e al mestiere, senza fronzoli né patemi, con amorevolezza e ragione, ben salde dentro la religione dei padri. Ma non senza crisi, come tutti i padri. Quando è vittima di violente tentazioni, quella del sentirsi inadeguato, in una vita che lo trascina, pavido e inerte, a rimorchio degli eventi, o quando sente una grandezza futura che dilata la mente. Ma dopo tanti anni nel suo cuore c’è ancora una piaga aperta.
Quando, dopo tre giorni, lo ritrovarono dodicenne nel tempio, Gesù alle loro angosce aveva replicato «devo occuparmi delle cose del Padre mio». Luca dice che Maria e Giuseppe «non compresero quello che aveva loro detto». Ma forse non fu così. Forse il mite falegname di fronte a quella gelida risposta avrebbe voluto liberare tante domande: io non sono più il tuo papà? Già adesso non lo sono più? Certo, anche in quel momento Giuseppe doveva sforzarsi di comprendere, ma non poteva dimenticare il pudore di quella sofferenza di padre con la «p» minuscola.
Giusto sembra dunque il romanzo d’un perdente radicale, d’un uomo vissuto con la coscienza dell’impossibile. Di un acrobata che volteggia sul miracolo e sul mistero.

In realtà questa è una storia di santi, dove nessuno è chiamato per nome. Tranne un peccatore, la cui identità si svela alla fine. E il cui tormento maggiore era forse tutto in una sola parola che nessuno gli aveva mai potuto dire: papà.

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