La padrona di un negozio nota che un cliente sta entrando nel suo locale. Alza gli occhi e... «Sandokan!» esclama sbalordita. «Già - ribatte Kabir Bedi, lievemente infastidito - Dicono tutti che ci somigliamo. Ma io sono molto più alto».
A metà fra citazione furbetta e ironico omaggio, la scena appartiene a Questione di stoffa, film tv diretto da Alessandro Angelini. Ma si è svolta anche nella realtà del suo set, quotidianamente. «Non potevamo battere lo stesso ciak per più di due volte - racconta il regista - senza essere interrotti da qualcuno che riconosceva Kabir e si precipitava da lui». E lui, imponente e sornione, ancora accoglie con regale condiscendenza gli omaggi degli ex bambini degli anni '70 che, nei panni di giornalisti, sono felici di occuparsi di questo tv movie (a novembre su Raiuno) anche soltanto perché fra i suoi interpreti - assieme a Pierpaolo Spollon e Beatrice Sandri - c'è proprio lui. L'eterna, inossidabile Tigre di Mompracem.
Signor Bedi: con Questione di stoffa lei torna in Italia per interpretare una favola romantica, che però al centro ha un tema importante come l'integrazione.
«Sì. Faccio il titolare di una sartoria indiana in concorrenza con una sartoria italiana. Finché proprio da questa guerra commerciale non sboccerà inatteso l'amore fra i due rampolli delle rispettive famiglie. Sono felice di aver girato questa storia. Ho sempre lavorato per la reciproca comprensione fra indiani ed italiani. Trovo che la cooperazione sia molto meglio del conflitto. E che questo sia oggi più vero che mai».
Da cinquant'anni l'ombra della Tigre della Malesia la segue dovunque. Questo l'infastidisce o la rallegra?
«Come potrei essere infastidito da un successo che dura da mezzo secolo? Sandokan mi ha dato tutto ciò che un attore può desiderare: soddisfazioni, denaro, fama internazionale. E agli occhi dei miei figli, quand'erano piccoli, ha fatto di me anche un eroe. Cosa può chiedere di più un padre ed un attore?».
Sandokan fu un trionfo che sconfinò nel fenomeno di costume, legando per sempre lei agli altri interpreti.
«Sì: un'amicizia incancellabile. Con Yanez, cioè Philippe Leroy, facevamo grandi regate sulla sua barca; mentre Adolfo Celi, che era il cattivo colonnello Brooke, mi portava fare interminabili mangiate nei suoi ristoranti toscani. Ancora oggi voglio molto bene alla perla di Labuan, Carol André. Ma la vedo poco. Carol fa un'altra vita adesso, è campionessa di nuoto master, non ama più frequentare il mondo del cinema».
Quale fu, fra i tantissimi, un motivo speciale o curioso che provocò il suo successo?
«Ricordo sempre un consiglio prezioso che mi dette Sollima. Sandokan - mi disse - ragiona col cuore, ma si muove con le spalle. Doveva essere cioè molto fisico, avere una postura orgogliosa, eroica. Senza diventare retorico, però. Un eroe mi disse - è una persona normale che fa cose straordinarie. Forse fu anche per questo che il pubblico l'amò tanto».
Prima della celebrità lei visse un episodio curiosissimo con i Beatles. Come andò?
«Allora io ero un reporter radiofonico. Mi misi in testa d'intervistare i Beatles, che erano in tour a Nuova Dheli. I Beatles non danno interviste! mi ruggì contro Brian Epstein, il loro manager. Allora io, ricordandomi che solo pochi giorni prima il quartetto aveva irritato gravemente il governo delle Filippine, con incredibile faccia tosta gli risposi: Devo intervistarli per incarico del governo indiano. Se l'intervista fosse rifiutata, il mio governo s'irriterebbe moltissimo. Beh: non ci crederete. Ebbi l'intervista».
Ha saputo che Mediaset ha in programma un nuovo Sandokan, con protagonista l'attore turco Can Yaman?
«Certo. Ogni generazione ha il diritto di riproporre i classici secondo il suo stile.
Spero che loro abbiano attinto ai mezzi tecnologici e agli effetti speciali che a noi mancavano. E poi la cosa mi rende felice. Perché, comunque vada, vedendo il nuovo Sandokan la gente ricorderà, ancora una volta, il mio».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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