«Sono uno scrittore che vive. Ripetilo. Sono uno scrittore che vive. Serve a consacrarsi all'ignoto restandone all'oscuro come io non più sono. Temo la narrazione dell'osceno, invisibile palco di ogni male. Eppure è un me il desiderio di scrivere un romanzo violento». È tornata Isabella Santacroce, dopo quasi dieci anni di assenza editoriale, anche perché lei non è il tipino che passa la vita a strusciarsi tra un amico della Domenica all'altro o a fare il tour delle presentazioni per presentare sé stessa, è uno scrittore vero. La citazione iniziale, tra l'altro, è del suo nuovo romanzo, Magnificat amour (ilSaggiatore), cinquecento pagine che potrebbero essere state scritte nell'Ottocento o tra mille anni, il tempo senza tempo di Isabella: i capitoli dei personaggi sono alternati a spezzoni del diario di Isabella, personaggio tra i personaggi, letteratura vivente sempre sull'orlo di un abisso che non può far a meno di guardare, da cui attingere per la sua arte, immolandosi per la scrittura.
Al centro della storia due cugine, una bellissima, e una bruttissima, Lucrezia e Antonia, un uomo che compare e scompare misteriosamente nelle vite delle due, Manfredi, il tutto orchestrato come una sonata di Gould. Antonia, dice Lucrezia, era chiamata la Gnu, «così era stata battezzata dai suoi coetanei adolescenti, che vedendola emettevano quel verso disegnando al contempo con le mani un'invisibile proboscide. E lei ne soffriva, io godevo la fortuna di essere il contrario. Lei brutta e io bella, lei introversa e io allevata dall'attrice televisiva strabiliante». Tuttavia la bella, Lucrezia, subisce a sua volta il prezzo della sua bellezza, sopportando un ricco melenso (chiamato Biscottino) pur di vivere una vita da ricca, altra illusione di felicità. Lucrezia, la sorella felice, ha pensieri di consapevolezza che solo la Santacroce poteva farle esprimere: «Quest'atmosfera che si tende come la corda di un violino prossimo a lanciare la sua freccia perché si conficchi in un bersaglio che ha il mio volto al centro mi raggela quasi fosse un grido, il mio, interminabile». Mentre la brutta, Antonia, la cugina, sogna amori invidiando Lucrezia, perché ognuno invidia le presunte felicità altrui senza conoscerne le pene. Non ci sono redenzioni nella ricerca della felicità, ognuno dei personaggi si muove in uno spazio in cui prende ciò che gli è dato prendere, senza porsi problemi, oppure desiderando desideri altrui che immagina realizzati. Un gioco di specchi deformanti in una scrittura cristallina e spietata, parole e frasi soppesate chirurgicamente: Isabella Santacroce è Emily Dickinson se Emily Dickinson avesse scritto romanzi (e in questo la reputo superiore a Emily Dickinson).
Come va a finire col cavolo che ve lo dico. Un romanzo sublime e «violento», un capolavoro dopo dieci anni di isolamento che, va da sé, sarà ignorato dalle potenti lobby narrative dei romanzini da premio usa e getta. Ma non fraintendete il termine violento, poiché, nello svolgersi delle vicende magistralmente incrociate, non c'è nulla di più violento di quello che chiamiamo amore. Non aspettatevi De Sade, aspettatevi la violenza dei sentimenti, la violenza dell'amore e delle illusioni dell'amore, illusioni perdute perfino quando vengono trovate nella contemplazione di un cigno, che inevitabilmente muore.
Violento perché per esistere, per amare, bisogna inventarsi qualcosa, una finzione. D'altra parte, come scrive Isabella in un capitolo del diario di Isabella: «Nessuno ti regala niente. La sopportazione ha il peso incalcolabile di una menzogna da tramutare in verità».
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