Saranno famosi? I giovani sono già qui

Solo dopo 107 anni dalla morte dello scrittore irlandese le sue opere incluse nei programmi delle scuole superiori

Saranno famosi? I giovani sono già qui

Non è semplice orientarsi nelle città letterarie, soprattutto se si disertano le vie maestre degli autori affermati per penetrare in più giovani e dedalici quartieri. Almeno a giudicare dal titolo, l’antologia di racconti curata da Mario Desiati per la minimum fax promette di curare il senso di spaesamento: Voi siete qui (pagine 262, euro 12,50) riunisce 16 esordi narrativi, selezionati tra centinaia di storie pubblicate nel 2006 su riviste cartacee o elettroniche. Un «qui» declinato come lamento, fuga, scoperta.
Appartengono al primo gruppo l’ombelico centripeto di Flavia Piccinni, che in Manco un po’ tiene la cronaca oblomoviana di un fuorisede che studia a Pisa; il protagonista per il suo autocompatimento depressivo ed ammorbante dovrebbe trovarsi in buona compagnia con il personaggio tra il rivendicativo e il rancoroso che in Domenica di Francesca Ramos rievoca la morte del padre, rasentando Isabella Santacroce. A metà strada tra lo stallo e la fuga sono i Bocconi di Giorgio Vasta. Vasta ci mostra un bambino che a pranzo, di nascosto, sputa il bolo in un ripiano sotto il tavolo, i cui detriti si accumulano fino a formare un monumento al rifiuto del cibo. In Muovendoci come gechi Marco di Marco narra dell’incontro omosessuale tra un professore di psicologia e un suo studente, mettendo in scena la fuga dall’altro, dal prossimo. È invece nel passato la fuga che Duccio Battistrada tenta in La delegazione arrivò a Massa senza troppi casini, resoconto di una irresistibile passione per i fumetti di Pazienza e di una grande nostalgia per gli anni Settanta.
Si possono considerare dei «voi siete qui» solo in senso ironico anche i racconti che parassitizzano il campo dei media. A cominciare dalla Fantasilandia di Axel Braun: l’autore ci descrive le tappe necessarie per girare una pellicola a luci rosse, prima di rimanere incantato, novello D’Annunzio, «dal profumo pungente delle tamerici». Una notte qualunque all’oca banana è il riuscito divertimento di Barbara Di Gregorio, che estrae un noir da una Paperopoli piena di night club, dove agonizza un Paperone. Ed è, se possibile, ancora più sovralunare il racconto di Giancarlo Liviano, Le suicide de Paris, in cui si immagina la più nota socialite dell’universo, Paris Hilton, estendere la mitomania dei suoi fan a se stessa e decidere di uccidersi in diretta, sotto gli occhi delle telecamere. Sembra di essere finiti in un universo à la Borges in cui le biblioteche non parlano sempre e solo di altre biblioteche, ma di altri network. In posizione eccentrica le Venticinque forbici di Tiziana Battista, storia di un’infatuazione tra due donne che produce una metamorfosi completa; il perfettamente mimetico Gamma Mu di Fabio Viola; e la tagliola della Reincarnazione di Cristiano De Majo dove nel finale appare l’aggancio alla realtà politica.
Il panorama cambia radicalmente con i racconti di Sorrentino, Giubilini e Giagni, reportage che permettono di trarre delle considerazioni sulla nuova narrativa italiana, e non solo su di essa. Se ancora ieri l’ingiuria suprema che si poteva rivolgere ad uno scrittore era di dargli del giornalista, oggi la situazione è capovolta: il piacere del testo è accresciuto dal riferimento puntuale alla realtà. Quanto più l’immaginario si fa rombante, massificato, cheap, quanto più il sogno diventa asfittico, tanto più la lezione delle cose costringe ad una serietà che ha un ritorno immediato in termini di qualità letteraria. Leggibilissimo allora Il pugile di Tommaso Giagni, per quanto debitore dei Gladiatori di Franchini, o I panni sporchi si sbiancano in Africa di Giacomo Giubilini, viaggio da Roma al Camerun all’inseguimento degli abiti usati che gettiamo nei cassonetti. Ma il racconto più notevole è senza dubbio Lo scasso di Poggioreale di Pietro Sorrentino, autentico Gomorra in sedicesimo che da solo merita il prezzo del volume. Lo «scasso» inclina al mito: «Un corridoio stradale lungo poco più di un chilometro, un budello di cemento che per tetto ha il cavalcavia della bretella di collegamento.

Spingendosi sempre più verso il fondo, salta agli occhi la quantità via via maggiore di morsi e ferri da cavallo, frustini e speroni appesi o inchiodati agli ingressi dei cubicoli, che come luttuosi presagi di morte si alternano a manubri di moto messi in croce, carenature svuotate dalle loro viscere ferrose, catene incrostate di grasso duro che assomigliano a serpenti neri essiccati al sole».
Non solo l’inchiesta tiene alta la fiaccola della leggibilità: ma buscando il levante per il ponente consente azzardi simbolici che la pura fiction non può più permettersi.

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