La scommessa dei musei gratis

Abbiamo apprezzato, con stupore e plauso anche del centrodestra, le posizioni del sindaco Cofferati sui grandi temi dell’ordine e della legalità soprattutto in rapporto all’equivoco giustificazionismo umanitario rispetto ai clandestini, ai lavavetri, agli zingari, tanto da essere liquidato come «fascista». È veramente singolare che in questi tempi difficili tutto appaia rovesciato e che anche su questioni di elementare civiltà come quelle relative alla formazione la visione più aperta e più moderna si debba a un sindaco comunista. Infatti, per rispondere ai tagli della Finanziaria, Cofferati ha annunciato di aver deciso con una delibera di giunta che poi passerà al vaglio del consiglio comunale la totale gratuità dell’accesso ai musei comunali bolognesi. Si tratta di quarantadue strutture museali che rischiano lo stesso di essere disertate e per le quali la prima impresa di promozione è proprio quella di offrirle ai cittadini indotti quasi a scoprirle. È, in questa fase, prima di tutto un’azione promozionale determinata da una insufficienza del governo. Ma applicarla introduce una grande città italiana come Bologna non nel circuito dei Paesi arretrati che pensano di trarre vantaggio materiale dalla cultura ma in quello delle grandi nazioni democratiche e moderne come l’Inghilterra e l’America dove i musei sono gratuiti (con la richiesta di una facoltativa offerta anche quando, come in America, non sono istituti pubblici ma privati). Fu merito di un grande amico della città di Bologna, Sir Denis Mahon, spingere l’amministrazione britannica a rendere gratuito l’accesso ai musei, a grandi istituzioni come il British e la National Gallery. Mahon è un grande liberale e non c’è niente di populistico nel contrastare i rischi di un degrado della società con servizi pubblici che favoriscano la formazione di sensibilità, di gusto, di conoscenza come, inevitabilmente, deriva dalla frequentazione dei musei.
D’altra parte quando io fui sottosegretario al ministero dei Beni culturali proposi l’eliminazione dei biglietti in tutti i musei statali, determinando preoccupazione e sconcerto dei direttori generali che ritenevano impossibile quella misura. Ancora oggi un alto funzionario dei musei di Stato come Antonio Paolucci afferma che «quella di Cofferati è solo un’utopia, un’idea lodevolissima ma irrealizzabile». Paolucci non può prescindere dall’esperienza degli Uffizi che hanno cospicue entrate dalla biglietteria, ma egli sa benissimo che il servizio sociale che deriverebbe dalla gratuità dovrebbe «servire all’educazione, all’incivilimento, a trasformare le plebi in cittadini» ed è proprio lui ad affermare che «nell’Ottocento sono stati realizzati grandi musei in Europa, a Berlino, a Parigi, a Londra e poi in America. L’idea di Cofferati racchiude un concetto altamente democratico e virtuoso quanto impossibile da realizzare. La gratuità, per esempio, rimane come bandiera illuminista a Londra e in America: per entrare alla National Gallery e al British non si paga, come pure alla National Gallery di Washington». Ma queste riflessioni non gli servono a concludere sulla opportunità di seguire quegli insigni modelli. Del resto se io vado in una biblioteca e prendo in prestito un libro, non pago. Allora perché devo pagare per vedere un quadro in un museo pubblico?
Il vero problema non riguarda quei pochi musei che in Italia funzionano, certamente gli Uffizi anche rispetto a uno straordinario museo come Capodimonte o anche la Reggia di Caserta, gli scavi di Pompei, la Grotta Azzurra che godono di un turismo internazionale, ma gli altri quattromila che rischiano di essere pressoché deserti. Ci sono infatti bellissimi musei che non rendono assolutamente e i cui costi di gestione non sono in alcun modo coperti dai proventi dei biglietti. Penso al Museo nazionale d’arte medioevale e moderna di Arezzo o alla Pinacoteca di Ferrara, ma anche a quella di Bologna. A Ferrara, in Palazzo dei Diamanti, sede di frequentatissime mostre, non vanno a visitare il museo più di cinquemila persone all’anno, non fanno la scala dal pian terreno, sede delle esposizioni temporanee, al primo piano. Gli incassi dei biglietti in questi casi non sono assolutamente un’esatta determinante e potrebbero essere sostenuti, sul piano della compensazione, da qualunque banca locale.
Dunque tanto vale eliminarli, fare una vera, seria politica culturale mettendo a disposizione di tutti il bene museo e facendo pagare, una volta accesa la curiosità e stabilito un rapporto di frequentazione e di confidenza, i cosiddetti servizi aggiuntivi potenziando gli spazi comuni come caffè, ristoranti, bookshop, spazi destinati a convegni. Di più facendo nei musei incontri, pranzi, feste. A fronte dei quarantadue musei aperti gratuitamente Cofferati chiami trenta aziende, il Bologna, le squadre di basket, gli operatori della moda. E ognuna adotti un museo comunale, utilizzandolo per le proprie cene di rappresentanza, i cocktail, gli incontri, perfino le feste di Capodanno o di carnevale. Insomma, con un’animazione che ne moltiplichi la vita al di là dell’obiettivo primario e in orari in cui non si paga la cultura ma il servizio, l’affitto degli spazi, ovviamente garantendo la sicurezza e la tutela delle opere. Serve naturalmente un privato, in accordo con la pubblica amministrazione, che abbia il ruolo di esercente e gestisca l’operazione governata da convenzioni precise a seconda dei singoli casi e delle diversità delle strutture.

L’importante è salvaguardare la gratuità degli accessi al pubblico e, se non un profitto per il Comune, almeno l’abbattimento delle spese. In cambio si otterrebbe l’innalzamento degli spiriti. Che è ciò che manca alla rinascita della nostra società civile.

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