I personaggi di questa storia sono tre: Giovanni, manovale o uomo di fatica, sua moglie Maria, stiratrice, e il signor Colombo, proprietario di un magazzino di elettrodomestici.
Il magazzino del signor Colombo si apre in una vecchia strada, nel cuore di Milano, e occupa quasi tutto il pianterreno di un vecchio palazzo incancrenito. Di fronte, pure a pianterreno, si affaccia il locale dove stira da mattina a sera la moglie di Giovanni. Nel retro di questo locale c'è la cucina e sopra, nel mezzanino, un paio di camere dove dorme la famiglia, che è composta dai coniugi e da cinque figli.
I coniugi Colombo dopo la guerra hanno comperato un appartamento nuovo, e nella vecchia via è rimasto solo il magazzino.
Il signor Colombo e Giovanni hanno la stessa età, cinquant'anni, e si conoscono da quando erano giovanotti.
Mentre il Colombo commercia attivamente, Giovanni passa la giornata seduto fuori della porta di casa, a cavalcioni d'una sedia. È quasi sempre disoccupato, e la famiglia va avanti col lavoro della moglie che stira per gli alberghi e per i privati. La donna adopera un vecchio ferro da stiro, di quelli di ghisa, a forma di corazzata, coi buchi in basso per far bruciare la carbonella che lo infuoca. Dalla strada si sentono i colpi del ferro sul tavolo e ogni tanto si vede la donna, fuori della porta, che fa andare a semicerchio il ferro, come un turibolo, perché la carbonella si accenda bene. Neanche quel lavoro sa fare il povero Giovanni, avvilito dalla disoccupazione. I figli vanno e vengono dalla scuola e neppure si accorgono del padre che sta sulla sedia, col mento appoggiato alle braccia incrociate sopra la spalliera.
Da quelle lunghe meditazioni Giovanni fu tolto, tempo fa, quando una cartolina lo chiamò in Comune.
Ci andò senza alcuna speranza, e fu un giorno memorabile, perché gli liquidarono tremilacinquecento lire di arretrati del soccorso invernale agli indigenti.
Con quelle tremilacinquecento lire in tasca tornò verso casa seguendo un pensiero che aveva in testa da molto tempo. Diede un'occhiata dentro casa alla moglie che stirava voltandogli le spalle, poi, quasi furtivamente, s'introdusse nel magazzino del signor Colombo.
Era sera. Stanco, il commerciante si avanzò dal fondo, tra un labirinto di lavatrici, di frigoriferi e di cucine elettriche, ma quando vide Giovanni smise il sorriso gentile che riservava ai clienti. Cosa poteva aver bisogno Giovanni?
«Buonasera. Giovanni, che c'è?».
«Niente, niente, signor Colombo, volevo solo domandare». E volgendosi verso la vetrina domandò: «Cosa costa un ferro da stiro elettrico, di quelli lì?».
«Quelli lì» disse il Colombo «ma di quelli lì, quello che costa di meno è sulle quindicimila! Ho bell'e capito Giovanni che vorreste comperarne uno per vostra moglie. Ma non è roba per voi!».
«O come mi dispiace» disse Giovanni scuotendo la testa. «Avevo proprio creduto che andassero sulle cinquemila. Tremilacinque li avevo, e il resto, a poco a poco...».
«No, no, Giovanni minga robba per voialtri».
«Pazienza, pazienza, quando si è poveretti, con cinque figli sul gobbo...».
«Ma sentite un po', Giovanni» attaccò il Colombo che gli era venuta voglia di parlare. «Non per entrare nelle cose vostre, ma chi ve l'ha detto di mettere al mondo cinque figli. Guardate me: credete che non fossi capace anch'io di avere cinque figli? Eppure mi sono sacrificato. Per il lavoro. Lavorare e basta, fin da giovane. E risparmiare».
«Bella adesso» si difese il Giovanni.
«Noi i figli non siamo andati a cercarli: sono venuti».
«Venuti? Ma ci avete dato sotto, ci avete dato, per farli venire!».
«Questo si capisce. Ma per forza! Lei e sua moglie, alla sera, avete sempre potuto andare fuori a spasso, a passare un'oretta, magari a prendere il gelato, a vedere un cinema, un teatro. In casa, la televisione, la radio... Ma noi, con quei quattro soldi che corrono, da quando ci siamo sposati, vent'anni fa, alla sera alle nove andiamo a letto. E a letto si sa, dài oggi, dài domani, i figli vengono».
«Ma andè là Giovanni, l'ultimo figlio l'avete avuto l'anno scorso, e ormai è finita anche per voi la festa. Li avete o no cinquant'anni come me?».
«Per averli, li ho. Ma noi, è come vent'anni fa. Tutte le sere alle nove siamo in letto, e lì me tocca a mi de stiraa».
«A me la contate, Giovanni!».
«No, no. Stia certo signor Colombo. Non è bugia! E sì che si mangia della gran minestra, minga pollastri e carne scelta compagn de voi!».
«Minestra o pollastri, quando si hanno cinquant'anni...».
«Eppure signor Colombo le assicuro, noi è come il primo giorno. Sarà l'affetto, sarà il gran far niente che io faccio nella giornata, ma a me, vede, un tre ore prima delle nove... io, io son già disposto».
«Cosa vuol dire disposto? Ne', Giovanni, volete mica dire che siete già pronto adesso? Manca due ore alle nove».
«Ah, in quanto a quello è proprio così. Guardi signor Colombo, non è un vanto, l'è natùra, l'è natùra. Cosa vuole! Vede un ferro di quelli lì, ebben el peserà un tre chili? Mi... el tegni sû. E tegni sû! L'ha capì?».
«Ah no, Giovanni, certe balle non si contano, a me. Se voi el tegnì sû, mi, mi v'el regali quel ferro di stiro di quindicimila lire, ve lo regalo! Ma fuori la prova. Fuori. Siamo tra uomini, no? Adesso chiudo bottega. O se no addirittura qui, dietro l'impannata. I fatti, Giovanni, fuori i fatti».
Giovanni voleva tirarsi indietro: era confuso, intimorito. Ma quel ferro lo sfidava. Non vedeva più che il ferro. Il signor Colombo era come se non ci fosse. Fu un attimo. E per alcuni eterni secondi il ferro restò appeso, immobile, come il romano della stadera quando il braccio graduato è fermo e un po' inclinato in alto, nell'equilibrio della buona pesata.
Il signor Colombo a occhi sbarrati guardava. Non c'era trucco, non c'era inganno. Abbandonò. Fece segno d'essere convinto. E riavuto il ferro da stiro che Giovanni gli consegnò come se fosse lui lo sconfitto, lo pose in una scatola d'imballo, legò la scatola con una corda e in silenzio porse a Giovanni il parallelepipedo.
«No, no» si schermì Giovanni «abbiamo scherzato. È stato uno scherzo. Proprio perché l'ha voluto lei; ma il ferro è suo».
«Giovanni, io sono di parola. Quello che mi avete fatto vedere è incredibile. Ma il ferro è vostro. Ho perduto e pago. Poche balle. Prendete il ferro e fuori dai piedi che chiudo bottega. U faa un bel afari, stasera! Ma davanti a certe cose non c'è che pagare, pagare, pagare!».
Giovanni fece qualche altra insistenza, sempre più debole, poi afferrò a due mani la scatola e pieno di vergogna infilò la porta, attraversò la strada di corsa ed entrò nella sua cucina come un bolide.
La Maria saltò per aria.
«Tò, Maria».
«Se l'è, Giovanni?».
«Guarda, dèsfa giò, tira fuori!».
E la Maria disimballò, cavò carta e paglia di legno; poi vide un manico nero, lucido, lo afferrò istintivamente e tirò fuori sotto la lampadina il più mostruoso e carenato ferro elettrico che si poteva trovare in commercio. Una macchina che stirava da sola, col cambio di velocità, i commutatori di corrente, la piastra isolante, l'impugnatura regolabile.
«Varda, varda» gridava Giovanni «gli mancano solo i fari poi pare un'Alfa, una Citroën De Esse!».
Corsero i figli, e tutti erano invasati.
Meno la Maria che stava zitta, dopo la prima sorpresa.
«Giovanni», disse gravemente appena i bambini se ne furono andati «dimmi la verità, tu hai rubato una qualche bicicletta!».
«Rubato? Ma che rubato. Non ho mai rubato io! L'è un affare che ho fatto. Lo sai che ho preso i soldi».
«Tremilacinquecento, lo so. Questo ferro costa almeno quindicimila, Giovanni. Dimmi la verità, Giovanni. Siamo poveri, ma l'unur, l'unur, Giuvan!».
«Ma che unur, Maria. Ti assicuro, ti giuro, è cosa onesta, onestissima».
«Dimmi da dove viene!».
«Questo no, Maria. Non posso dirtelo. È un segreto, una cosa riservata. Ma onesta, regolare».
«No. Fin che non so da dove viene e come è stato pagato, questo ferro resta nella sua scatola e vado avanti a stroncarmi il braccio col vecchio».
I bambini urlavano anche loro. La minestra diventava lunga. Andarono a tavola.
Poche parole durante il pasto.
Muso dopo cena e alle nove, come al solito, tutti a letto.
Per la prima volta, dopo vent'anni, si voltarono le spalle e dormirono dopo aver inghiottito amaro in silenzio.
Si alzò un nuovo giorno. Giovanni appena sveglio si tastò, quasi temendo che la prova della sera prima l'avesse manomesso. Tutto era a posto.
Anche la moglie, come aprì gli occhi, pensò al ferro. Si alzò in silenzio e alle sette era già al lavoro.
Dal rumore Giovanni, che come ogni mattina si alzava tardi, capì che era il ferro a carbone quello che andava. Addolorato si alzò, col suo segreto nel cuore, e cominciò a girare intorno alla moglie: «Ti assicuro Maria, è una cosa onesta. Un giorno ti spiegherò. È una scommessa. L'è un premio. Non so: metti che abbia vinto una lotteria. Ho tirà, ho tirato a un banco di beneficenza. A Porta Genova, c'era una fiera, un baraccone...».
Ora di mezzogiorno la Maria aveva cominciato a parlare anche lei, a discutere, a domandare. Dopo pranzo volle rivedere il ferro. Giovanni corse alla presa con la spina in mano. La Maria cominciò a toccarlo di sotto, a sfiorarlo, ad avvicinarlo alla guancia.
In un minuto era pronto, costante nel suo calore, scorrevole, veloce. Al lavoro sembrava perdere peso, volava. Con una mossa si drizzava in piedi, appoggiato al suo supporto e stava come un orso sulle gambe di dietro, pronto a ripiombare sulle tovaglie, sulle camicie, sui colletti.
La Maria lo provò e riprovò. In capo a un'ora non poté più neppure pensare al vecchio ferro. Sembrava impazzita. In fondo, la stireria era la sua vita.
Ora di sera aveva fatto il lavoro di due giorni. Giovanni era raggiante. Scavalcava continuamente il filo, toccava il ferro con timore, batteva la mano sulle pile di biancheria stirata.
Ogni tanto andava sulla soglia e dava una guardata torva al magazzino del Colombo. Di mettersi fuori sulla sedia, come gli altri giorni, non si sentiva. Aveva un po' di vergogna e di timore. Pensava che i garzoni del Colombo sapessero già la storia, che la moglie del Colombo venisse fuori a guardarlo come un mostro o che il Colombo stesso gridandogli qualche allusione scoprisse il suo segreto.
Di essere un vero mostro cominciò a dubitare davvero. Ma accettò in cuor suo quella che forse era un'anormalità. «Il Signore» si diceva «ha dato al Colombo i soldi, a me questa forza, questo difetto. Ma in fondo è stata una fortuna: i figli, uno dopo l'altro, ed ora il ferro. Potenza creativa!». S'inorgogliva. Parlava tra sé e sé. Faceva strane riflessioni.
La moglie lo guardava e avrebbe dato qualunque cosa per scoprire il mistero di certi sorrisi che passavano sul volto del marito. Capiva che il suo Giovanni era un altro uomo, che aveva scoperto qualche cosa. «Speriamo una cosa onesta» pensava. «Da poter dire a tutti, da non far parlare la gente». E anche lei, segretamente, contava sul suo Giovanni, così eccitato ma contento, uscito finalmente dall'apatia e dall'ignavia. «Sarà forse un avvenire anche per i nostri figli. Una cosa che poi potranno continuare loro». E ogni tanto, prudentemente, stuzzicava il marito. Ma invano.
«O Giovanni» gli diceva quasi continuando i suoi pensieri «se è una cosa buona che hai scoperto non sarà finita lì. Andrai avanti, vero?».
«Eh! Può darsi, può darsi» rispondeva Giovanni senza voltarsi e continuando a fantasticare.
«E i nostri figli» riprendeva la Maria «potranno farla anche loro?».
«Mah! Secondo, secondo... cara Maria. Bisognerà vedere. Io spero, io penso. In fondo è possibile...».
«Ma è una cosa così difficile» riattaccava la moglie che tirava a indovinare «l'è un brevetto forse? Ma cosa l'è dunque!» s'impazientiva la donna.
E il Giovanni duro, enigmatico.
«Dimmi un po' Giovanni» era una nuova idea astuta della povera donna «se è una cosa onesta, per bene, come dici tu, potrebbe farla anche il Don Celso, quel sant'uomo del nostro curato?»
«Ho paura di no, Maria...».
«Ahi, Giovanni, ahi! Allora è una cosa brutta...».
«Ma no, ma no, Maria. L'è questione di età, magari. Chissà che ai suoi tempi anche il Don Cels...».
Tra queste schermaglie venne la sera di quel giorno e andarono a letto. Appena sotto Giovanni si voltò su un fianco, in preda ai suoi pensieri: «Ciao Maria» e non si mosse più fino al mattino. Lo stesso accadde la sera dopo e l'altra appresso.
Dopo tre giorni, al «Ciao Maria» la buona moglie rispose: «Un momento, Giovanni, un momento. Senti: domani andiamo dal dottore».
«Dal dottore? Ma son mai stato così bene io, Maria. Son mai stato così bene!».
«Tu sei malato, Giovanni. Tel disi mi. Te se malàa. Ma com'è? Dopo vent'anni» - finalmente la Maria si sfogava - «dopo vent'anni che come due pivioni, tutte le sere Giovanni... regordet, tutte le sere! Era la nostra festa, Giovanni, el paradìs di pôveritt! E adesso, dopo che questo ferro è entrato in casa, tutto è cambiato. No, Giovanni, qui c'è sotto qualche cosa. Parla Giovanni! Parla, in nôm di tô fioeu! Te me le fada grossa, Giovanni!».
Ma oramai ci voleva altro per impressionare Giovanni. Rispose calmo: «Maria, sta tranquilla, non è successo niente. Sono sano come un corno. Sto bene, sto proprio bene. Soltanto... ho bisogno di forza. Sì, di forza. Ho bisogno di riposare, di accumulare forza, capisci? Forza, forza!».
«Ma com'è, Giovanni, questa storia? Che bisogno hai di riposare che non fai niente tutto il giorno? Ma ti manca la forza? Ne hai sempre avuta tanta di forza. Troppa forza!».
«Eppur Maria, gô bisôgn de forza. Tanta forza!».
E mentre la Maria, disperata, cominciava per la prima volta a piangere, dopo tanti anni di vita coniugale povera ma serena, il Giovanni, indifferente al suo dolore, e quasi parlando con se stesso, mormorava: «Forza, sì, tanta forza, Maria. Se te savesset, Maria, che forza, che gô bisôgn».
E poi, sottovoce, come rivelando una parte incomprensibile del suo mistero, riprese: «Maria, là in del Colombo, sai, in quel magazzino...».
«Sì, Giovanni, parla, parla!».
«Là in del Colombo, Maria, ho visto un frigorifero! Un frigorifer, Maria... Ma 'l peserà un cinquanta chili! Gô bisôgn de forza, Maria, tanta forza. Làssem dôrmìi!».
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