Scrivo di Travaglio? È un dovere morale

Non mi è piaciuto per niente l'articolo «Facci e Travaglio, telefonatevi please» che è stato pubblicato sul Giornale di sabato scorso. Penso che l'autore, Michele Brambilla, non abbia neppure la minima percezione di quanto io sia fuori dalla grazia di dio, e credo seriamente che la pubblicazione di quell’articolo sia un fatto difficile da riparare, che nessuna pretesa di leggerezza e sdrammatizzazione possa giustificare. Sono in parte affari miei: cercherò di attenermi solo a ciò che i lettori del Giornale, quotidiano dove scrivo dal 1994, secondo me devono sapere anche se in buona parte già lo sanno.
Anzitutto: io non ho scritto 121 articoli su Marco Travaglio, quello è il numero di volte in cui semmai l'ho menzionato. Su questo giornale, in secondo luogo, io non ho risolutamente mai «messo in piazza i miei personalissimi bisticci come fossi in una commedia napoletana», e per saperlo basta leggere, controllare: io mi sono sempre riferito a cosiddetti fatti, episodi, tesi e opinioni che ogni volta ho cercato di smontare e confutare quando era il caso di farlo. Brambilla fa confusione tra ciò che ho scritto sul Giornale e ciò che può esser comparso per esempio sul sito Dagospia per quanto si tratti di mondi palesemente diversi e che perlomeno io ho sempre tenuto decisamente separati: gli è che è insensato scrivere che «noi lettori abbiamo appreso particolari» eccetera, perché «noi lettori» un accidente, Brambilla confonde i lettori di questo giornale con se stesso o con chi scorrazza in internet tutto il giorno per deformazione professionale. I lettori che hanno commentato online l'articolo di Brambilla, non a caso, hanno mostrato di non capire di che cosa si stesse parlando e hanno mostrato semmai un certo stupore per la confessata amicizia di Brambilla con Travaglio.
Circa il buon gusto di riportare nell'articolo gli insulti di Travaglio contro di me, oltretutto, faccio fatica a trattenermi: ringrazio il mio Giornale e chiedo scusa se non mi metterò a spiegare, ora, che non sono propriamente un «ex ladro» e che non ho mai rubato scatolette di caviale, che mi fa anche schifo. Sicché non c'è nessun «piano personale» sul quale sarei scivolato, e chi ha «sbracato» non sono io. I miei articoli parlano per me, e forse qui vi stupirò, forse non ci crederete: ma ho il vizio di prendermi dannatamente sul serio nel mio lavoro. Si perdoni l'immodestia, ma se i miei scritti su Travaglio (anche su Travaglio) fossero davvero come «quando moglie e marito spalancano le finestre per far sentire quant'è fetente quell'altro», be', credo che non sarebbero spesso così letti e commentati, non sarebbero così ripresi nelle rassegne stampa o citati in altri articoli di altri giornali, e probabilmente non ci sarebbero tutti questi avvocati e parlamentari e rompicoglioni che mi chiamerebbero per chiedermi bislacche consulenze appunto sugli insulti che io e Travaglio esclusivamente ci scambieremmo. Anche perché forse va spiegata una cosa.


Io non mi occupo di polemizzare con un qualsiasi rubrichista che scrive bestiate sull'Unità, un collega come un altro nel grande circo autoreferenziale dei giornalisti: io mi occupo di un signore che ogni settimana straparla davanti a milioni di persone dalla Tv di Stato, un partigiano le cui faziose requisitorie vengono riportate sull'enciclopedia Wikipedia come se fossero vangelo, un tizio che molti giovani disperati credono davvero che sia un giornalista anziché un mercante di suggestioni, uno che è definito «documentato» da tutti coloro che non hanno voglia di documentarsi al posto suo, uno che fa il gioco di una parte politica contro un'altra, una Procura contro un'altra, un Italia contro un'altra, oltretutto un conto corrente (il suo) contro altri. Mi occupo di Marco Travaglio, mi vien da dire, perché qualcuno deve pur farlo, e io non la vedo tutta questa concorrenza in giro. Se poi non v'interessa, che dire, fatelo sapere.
Filippo Facci

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