Forse il Padreterno gli ha salvato la vita tre volte perché potesse dedicarsi alla scultura di immagini sacre che hanno dato prestigio ad altari, chiese e persino al Duomo di Milano, dal quale svettano due sue statue. Ma lui, don Marco Melzi, 90 candeline spente qualche settimana fa, si schermisce con un sorriso: «Non dica così. Dio non ha bisogno di noi. Siamo noi che abbiamo bisogno di Lui
». Poi il sacerdote fa strada per raggiungere la sua «bottega» situata nella Scuola Beato Angelico di via San Gimignano, dove per 58 anni ha insegnato scultura agli allievi del liceo artistico. E lì, fra blocchi di marmo, modelli in creta e lignei abbozzi di crocifissi, racconta la sua romanzesca vita di soldato, sacerdote e scultore. Marco Benzi, milanese di famiglia benestante e figlio darte, è maestro elementare quando nel settembre 1939 viene chiamato alle armi con il grado di tenente nell8° Reggimento Fanteria. Marco ottiene una prima grazia. Gli spetta infatti una licenza, ma generosamente la cede ad un compagno darmi: «Vai tu al mio posto, che hai due figli da abbracciare». Il collega ringrazia commosso e parte, ma al ritorno il piroscafo «Fiume» che lo sta riconducendo al fronte viene silurato e lamico trova la morte. Marco arriva a sentirsi colpevole del suo altruismo. «Dovevo esserci io al suo posto
». La guerra continua, e il tenente Melzi viene proposto per una medaglia dargento al valor militare dopo unazione coraggiosa. L8 settembre piomba sui destini della guerra mentre il tenentino è accampato con il suo plotone sulle montagne della Grecia. La Turchia è a poche miglia e con altri sette soldati lufficiale assembla una zattera di fortuna per tentare la traversata. Ma il natante «fai-da-te» si sfalda a metà del tragitto. In sei raggiungono alcuni scogli e vengono fatti prigionieri dai turchi, mentre Marco e il suo attendente Piero Marangon rientrano a nuoto a Samo, dove vengono catturati dai tedeschi. «Ci accusarono di essere spie». Ma non eravate in uniforme? «Macché, in mutande». Così Marco e lattendente sono messi con le spalle contro una parete rocciosa per la fucilazione. Il plotone desecuzione è ormai schierato con le armi puntate sui due, quando Marco dice al suo attendente: «Preghiamo!». Ad alta voce si ode un «O Gesù damore acceso
» che provoca una risata dellufficiale tedesco, che fa sospendere lesecuzione. Ed è la seconda grazia.
La terza sarà quella che lo farà scampare ai venti mesi di internamento tedesco in Westfalia, dove conoscerà Giuseppe Lazzati, futuro rettore dellUniversità Cattolica, e Giovannino Guareschi. «Sempre allegro Giovannino; per il Natale ci compose una canzoncina corredata di sue "performance". La ricordo ancora
». Preso in mano un flauto, don Marco fa aleggiare qualche nota. «Beh
una volta mi riusciva molto meglio
». Ma la prigionia è soprattutto meditare, e sboccia la sua vocazione. Tornato nel 1945, sceglierà il seminario e lAccademia di Brera, dove sarà allievo di Francesco Messina e incontrerà artisti come Manzù, Minguzzi e Marino Marini. Collaborerà con lamico Gio Ponti, ma sua espressività scultorea sarà dedita unicamente a soggetti sacri. Le sue opere andranno un po ovunque. Anche in cima al Duomo, come la statua del Beato Mazzucconi, missionario del Pime, e del Beato Luigi Maria Monti, in marmo di Candoglia, rispettivamente di 9 e 2 metri. «Sì, sono un fornitore di fiducia della Veneranda Fabbrica
» commenta autoironico.
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