Se ora "comunismo" è una parola proibita

La Berlinguer e Mauro censurano il termine a proposito di Kim Jong-Il e di Havel. Una "sobria" manomissione della Storia

Se ora "comunismo" è una parola proibita

Non ci volevo credere, ma su Internet è facile verificare. E dunque a meno che io non sia diventato cieco e sordo, è vero: sia nel caso della morte del dittatore comunista nordcoreano Kim Jong-il, sia nel caso della morte del campione dell’anticomunismo europeo dell’Est Václav Havel (per due volte presidente della Repubblica) il Tg3 ha mai pronunciato o fatto pronunciare le parole, peraltro foneticamente semplici e note, di «comunista» e «comunismo». Si dovrebbe commentare con aggettivi enfatici: incredibile! pazzesco! indecente!

Ma l’ironia col punto esclamativo non è più in voga da quando un manto asfaltato di sobrietà ha sepolto ogni movimento scomposto, ogni capello fuori posto, ogni sillaba enfatica.
Ed è meglio così: perché la cosa purtroppo non può destare alcuna meraviglia.

Una scuola di pensiero, proprio quella che Havel temeva e prevedeva, ha preso i comandi dell’etica e dell’estetica e ha decretato che parlare di «comunismo» è da pezzenti: si può parlare di dittatura, al limite di stalinismo (Stalin, chi era costui? Un caso patologico nato come fenomeno imprevedibile in un mondo normale o un professionista del genocidio pianificato insieme ai piani settennali del partito comunista sovietico?) ma mai di comunismo. Questa parola, peraltro decente e frequente in ogni dizionario di filosofia e manuale di storia, è stata bandita perché può urtare le sensibilità dei vecchi e meno vecchi comunisti.

Controprova, a meno che non ci sia sfuggito qualcosa, il signor presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha tessuto un nobile elogio di Havel descrivendolo come un grande intellettuale e un europeo di alto lignaggio. Tutto vero, per carità. Ma dove viene ricordato che Havel fu prima di tutto un oppositore fermo e disarmato, etico e politico, del comunismo? Eppure il presidente Napolitano viene dal Partito comunista, in cui militava - anzi guidava - l’ala migliorista filoccidentale che fece di lui «il mio unico amico comunista» nelle parole dell’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger, anticomunista armato.

E infine - sempre che gli occhi e gli occhiali non ci abbiano fatto brutti scherzi - anche l’articolo del direttore di Repubblica Ezio Mauro evita come la peste l’aggettivo e il sostantivo, che devono essere considerati a Largo Fochetti estremamente cheap, volgari, inappropriati.

Dunque, impariamo ogni giorno di più dai maestri della e dalla sinistra che il comunismo non è esistito, sono esistite le sue utopie (invariabilmente nobili e generose), sono esistite le sue distorsioni staliniste, maoiste, polpottiste, castriste, africane e nordcoreane, ma le distorsioni non erano la «cosa», l’oggetto che merita il nome che ha scelto di portare e di cui non si deve parlare perché non ne siamo degni o non vogliamo rogne.

Si spiega così anche meglio come mai quando Silvio Berlusconi, a cui piace anche essere provocatorio e persino dispettoso, accusa «i comunisti» e parla di loro come di qualcosa di esistente e di attuale, si rovesci su di lui tutto il rabbrividito sdegno del mondo che una volta si chiamava radical chic, o gauche caviar. Dare del comunista a un comunista è volgare. Dire che qualcuno ha sofferto in galera per il comunismo è inopportuno. Che qualcun altro è morto dopo aver seviziato il suo popolo in nome del comunismo (e non perché è una persona stravagante) è miserevole, volgare, inopportuno. Turba gli equilibri, «riapre il dibattito» (che non si è in realtà mai fatto, mai concluso) sul più vasto e duraturo crimine politico contro l’umanità, se sono appena verosimili le cifre fornite dagli storici russi dopo la caduta del regime comunista, secondo cui le vittime civili e innocenti del comunismo di matrice russa ed europea - guerre a parte - sono state fra i 15 e i 40 milioni, inclusi vecchi, donne e bambini. E non soltanto per mano di Stalin, ma anche di Lenin e poi anche di Krusciov che si lasciò convincere proprio dai dirigenti comunisti italiani, Togliatti in prima linea, a schiacciare nel sangue e nelle lacrime la rivolta anticomunista ungherese degli operai e degli studenti di Budapest nel triste novembre del 1956.

Che brivido: scrivendo queste poche vecchie e scontate noticine storiche, già mi sento un bieco anticomunista assetato di assurde vendette fuori tempo, mentre in realtà vorrei, vorremmo tutti soltanto che la decenza e la sobrietà fossero lodate non soltanto per

il loden e la compostezza linguistica, ma anche di fronte alla storia che non chiede di essere manomessa. E insomma che la verità, un minimo decente di verità almeno nei nomi delle cose e delle persone, fosse rispettata.

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