Se la "Repubblica" salva Fassino dai Ds

Decisivo il ruolo del quotidiano di Mauro nell'orientare la base della Quercia ed evitare scissioni

Se la "Repubblica" salva Fassino dai Ds

Molti tra coloro che seguono le travagliate vicende dei postcomunisti si aspettavano dal prossimo congresso nazionale ds (dal 19 al 21 aprile a Firenze) risultati diversi da quelli che emergono dalle assise di base. Questa volta il gruppo dirigente postcomunista la stava facendo grossa, tagliava i legami non solo con il comunismo ma (in parte) anche con i socialisti europei, si univa agli eredi della Dc, in un periodo in cui impazzano i vescovi riproponendo – secondo l’opinione progressista corrente – una questione di laicità della politica. Infine, il governo Prodi fa schifo e Piero Fassino - come gli ricorda Fabio Mussi - ha ridotto il partito ai minimi termini. (Fassino non sta bene, i Ds stanno malissimo).

Ecco i motivi che facevano pensare a un buon risultato dell’opposizione, sia delle bande massimaliste che sotto diversi condottieri (Mussi, Fulvia Bandoli, Cesare Salvi) avevano già sfidato Fassino all’ultimo congresso, sia del gruppetto con mal di pancia «socialista» messo insieme da vecchi apparatchik offesi dalla caporalesca arroganza fassiniana (da Gavino Angius a Mauro Zani ad Alberto Nigra). Anche grande parte della stampa «indipendente» prevedeva un segretario eletto con un 70 per cento dei consensi, forse addirittura sotto: un colpo per chi voleva organizzare il futuro partito democratico in grande pompa. Passata qualche settimana, la realtà appare essere un’altra: le bande massimaliste stentano a raggiungere il 15 per cento dei militanti, i vecchi apparatchik lottano per il 5. È tanto se terranno Fassino fermo all’80. Che cosa è successo? Una vecchia pantegana del Pci come Zani dice che è l’effetto segretario: gli iscritti lo seguono come i topi di Hamelin il pifferaio.

L’effetto segretario pesa in un partito dal dna leninista, però non basta a spiegare quel che succede. Perché si è invertita una tendenza molto dopo che il segretario si era già schierato? I Ds, in realtà, non sono più in grado di orientare la base in modi anche lontanamente simili a quelli dell’antico Pci, geloso dell’autonomia politico-culturale degli iscritti. Chiunque ascolti un dibattito di un’organizzazione di base diessina, rintraccia immediatamente l’editoriale di Eugenio Scalfari in un intervento, quello di Ezio Mauro in un altro, le posizioni di Giuseppe D’Avanzo in un terzo, le battute di Michele Serra e Curzio Maltese in altri ancora. D’altra parte «l’organo del partito» l’Unità non è che una Repubblica di serie b, con un Antonio Padellaro che imita Mauro anche nel trench e un Furio Colombo in gara a spararle grosse con Giorgio Bocca. E un Marco Travaglio, forcaiolo come loro, solo dotato di minore finezza degli ispiratori «repubblicani».
La svolta nei Ds coincide con il riposizionamento del quotidiano di largo Fochetti: prima incerto – il cavallo su cui Carlo De Benedetti punta, Walter Veltroni, aspirava a ritardare il congresso ds per trattare da posizioni di forza – e poi spaventato dall’avvitamento del governo Prodi, che avrebbe potuto determinare un’impasse per il futuro Partito democratico. Quando il giornale debenedettiano ha deciso di puntare sulla linea Fassino, il clima nella base ds è cambiato, e gli «oppositori» sono stati cotti ben bene. Non è stato Fassino a influenzare questo processo se non assecondando le idee correnti proposte dal quotidiano romano. D’altra parte tutte le volte che negli ultimi anni queste ultime sono state in contraddizione con quelle fassiniane, hanno vinto: dai girotondi, ai magistrati, all’affaire Bnl, al referendum sulla fecondazione artificiale, alla querelle sui Dico e così via.

Naturalmente anche gli oppositori sono marginali nel corpaccione ds. Anche dove vanno benino, come a Milano, ciò avviene perché gli iscritti ds repubblicanizzati votano non contro Fassino ma contro le idee «volonterose» del Corriere della Sera (dei Michele Salvati e Pietro Ichino) troppo presenti tra i ds milanesi e troppo anticonformiste per i canoni «repubblicani». La lingua mussiana, poi, contaminata da varie culture estremistiche e ora anche da una inedita retorica socialdemocraticheggiante, è meno in sintonia con la vecchia base ex picista che apprezza di più il discorso realistico di Massimo D’Alema, l’unico che, quando vuole, parla ancora come Palmiro Togliatti. Né ha peso la microscissione neosocialista agitata da Peppino Caldarola in sintonia con naufraghi dell’ex Psi: impresa lanciata mentre, dopo l’inglese e la tedesca, persino la sinistra francese si trova a disagio con i vecchi miti socialisti.

In effetti l’unico in grado di proporre idee autonome da Repubblica è l’attuale ministro degli Esteri, che proprio nei casi prima citati per dimostrare la subalternità di Fassino alle idee correnti, ha invece offerto una prova – sia pure perdente – di autonomia. D’Alema conta su un’ampia squadra di apparatchik (di partito, cooperativi, della destra della Cgil) che gli offrono spazi di manovra. Però nelle vicende in corso ha preferito allinearsi e coprirsi per non turbare Romano Prodi, e prepararsi così nel futuro a fare i conti per la leadership del nuovo partito, non lasciando troppo spazio a Veltroni, possibilmente in asse con Franco Marini, ma tenendosi libere le mane anche per esiti diversi, persino zapateristici. Una tattica che gli è costata l’amicizia di fedelissimi irritati per la mancanza di leadership (da Antonio Polito a Nicola Rossi ad Andrea Romano a Caldarola a Gavino Angius). Ma questo non scuote il presidente ds, preoccupato da una sola cosa: i rapporti sempre più stretti tra Pierluigi Bersani e Carlo De Benedetti. Questo è un fatto inaspettato e che potrebbe creargli qualche problema nella strategica Emilia, l’isola del «tesoro» del Pci ma anche dei ds.

Comunque sul fronte «soldi» D’Alema si è attrezzato con il fido Ugo Sposetti che sta studiando di trasferire in una fondazione l’immenso patrimonio immobiliare postPci, base per fare poi politica nel Pd, mossa per avere fieno in cascina per eventuali scontri con avversari sponsorizzati da qualche capitalista democratico. (1. Continua)

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