Grazie Santoro, la lezione è servita. Giovedì ho scoperto che in questa terra di servi e prostitute c’è un manipolo di giornalisti scomodi, gente con le palle, che resiste, resiste e resiste al potere. Si chiamano Travaglio, Mentana, Mieli, Lerner e, primo tra i suoi pari, naturalmente lei, onorevole Santoro. Gente che ha urlato i suoi «non ci sto» dalla periferia del mondo. Non hanno pontificato nei salotti cortigiani. Troppo comodo. Voi avete gli attributi, lei Santoro più di tutti, e nella vita avete scelto di bazzicare solo fogli e telecamere clandestine, di frontiera. Cose come la Rai, Mediaset, Stampa, Corsera, con la rabbia e l’orgoglio di chi non si svende per tremila euro al mese come noi. È per questo che avete un posto in prima fila nel paradiso dei giornalisti. C’era, e questo mostra che quando si parla di uomini lei non ha pregiudizi, anche il mio ex direttore. E non importa se Maurizio Belpietro ascoltava perplesso, con lo sguardo di chi pensa di essere capitato in un club di mitomani. Lei, Santoro, vada avanti. Ci ricordi la lezione di San Cilindro, questa sorta di pokemon alla sua ultima trasmigrazione, che avete sublimato, rovesciato, santificato ed ora sta lì bello, con il suo profilo antiberlusconiano, a ricordarci la nostra miseria di pennivendoli. San Cilindro apostolo e martire, che ha cancellato Indro e asfaltato Montanelli. Lui, che diceva: sono solo un giornalista. Un giornalista, onorevole Santoro, non un padre della patria né un parlamentare europeo.
Come ha detto, giovedì? Ha guardato i suoi ospiti con complicità e poi ha alzato lo sguardo in alto, verso San Biagi e San Cilindro: «Non vi sembra che gli ultimi ad avere quel tipo di attributi siamo noi, quelli della nostra generazione?». Sì, ha detto più o meno così. Dopo di lei il diluvio, solo servi e castrati. Il giornalismo è morto, mummificato da questi vecchi ragazzotti che non fanno uno straccio d’inchiesta, imbavagliati dagli editori, che se vedono per sbaglio una notizia chiudono gli occhi e si tappano le orecchie. Noi, che negli anni Settanta giocavamo a subbuteo, mentre lei faceva la rivoluzione. E che belli i giornali di una volta, quelli della prima Repubblica, con il Palazzo che tremava, incalzato dal giornalismo vero, coraggioso, schiena dritta e niente marchette. Quando gli editori erano puri e si chiamavano Mattei, Agnelli, Cefis, De Benedetti. Bei tempi, davvero. Quando, ancora prima, i carri armati calpestavano Budapest e quasi tutti scrivevano: i russi liberano l’Ungheria. Ora i patriarchi del mestiere sono morti e siete rimasti voi, quattro gatti, costretti a rigirare sempre sulle stesse poltrone, quasi senza eredi. Io vado lì, tu ti sposti qui, lui ritorna là. Porca miseria tocca sempre a voi, gli ultimi giornalisti con gli attributi. Non smetta di lottare, Santoro. Difenda la fortezza Bastiani. Non ci vede laggiù, dove comincia il deserto? Siamo noi, siamo i tartari. Stiamo arrivando.
Ma lei non si fidi troppo di Belpietro, Mieli e Mentana. Forse non se ne è accorto, ma non la seguivano più di tanto. Non ha notato? Quando lei rivendicava l’orgoglio della razza, loro quasi si vergognavano. Lì l’unico che è davvero alla sua altezza è Travaglio. Mi sono venuti i brividi quando ha parlato dei giornali del ’92-93, quelli di Tangentopoli. Io allora facevo, male, la scuola di giornalismo. Non ho vissuto quella stagione di eroi, la nuova resistenza. Quando, come ha raccontato Travaglio, i cronisti di giudiziaria si muovevano in pool per tutelarsi dal potere. E io che pensavo che si fossero messi d’accordo per non prendere buchi e svangare i cazziatoni dei direttori. Che ingenuo. Non avevo capito nulla. La grandezza di questi reporter di guerra in fila davanti alla porta del pm, temerari mentre allungavano le mani sulla lista degli inquisiti. Il pool di giornalisti sarebbe sicuramente piaciuto a Montanelli, questo modo così democratico di distribuire le notizie. Niente invidia, nessun anarchico a corrompere la verità con qualche notiziaccia raccattata chissà dove. Tutti belli uguali e compatti contro un potere che stava crollando.
Montanelli non lo conoscevo bene. Ho passato con lui solo un pomeriggio. Ero lì per un’intervista, quando lavoravo per un quotidiano importante, non di frontiera come i vostri: L’opinione. L’intervista durò un quarto d’ora, il resto del tempo lo passammo a parlare dei Gracchi e della generazione di Clodio e Catullo, una sorta di ’68 dell’antica Roma.
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