Secco Suardo, la nobile arte del conte del restauro

Tecniche innovative e un "Manuale" basilare. Così lo studioso bergamasco segnò il XIX secolo

Di tanti argomenti avrei voluto parlare questa domenica, e tante emergenze richiamano la mia attenzione e richiedono di essere portate alla vostra di lettori che, nel corso degli anni, siete diventati una silenziosa setta di protettori della bellezza, infelici e affaticati dalle continue provocazioni di chi ha deciso di cancellare la bellezza dell'Italia. Ma essa tenacemente resiste. E si nasconde e si protegge, e appare per caso.

Viaggiavo da Bergamo verso Treviglio, per rivedere il mirabile polittico di Butinone e Zenale che ho già qui raccontato, destinati a un nuovo museo. Uno dei più alti monumenti della pittura in Lombardia e in tutto il nord Italia. E mentre attraverso un borgo devastato da un'edilizia selvaggia, di case, ville e villette, Lurano, intravedo la sagoma di una torre, un giardino fortunatamente ancora salvo, e l'idea di un castello che sopravvive con fragilità e tenerezza. Entro nel borgo, dove una scellerata speculazione sta edificando il prossimo orrore e, su una targa di metallo, vedo l'insegna rassicurante dell'ADSI (Associazione Dimore Storiche Italiane), con l'indicazione «Castello Secco Suardo». Sotto, un'altra targa ulteriormente rassicura: «Centro studi e documentazione-Associazione Secco Suardo per la conservazione e(d) il restauro dei beni culturali». Sarei andato oltre, se un affittuario gentile, tra frasi cerimoniose e auspici di rivedersi, non mi avesse detto: «Vada, vada dal conte. Suoni il campanello. Sarà felice di vederla». Rassicurato, tento. E mentre mi aspettavo un vecchio conte burbero e bonario, riparato nel fortino del suo castello, in tenace contrasto con il mondo degradato circostante, trovo un uomo asciutto che mi accoglie con spirito cameratesco, si rivela mio coetaneo e mi mostra l'inattesa meraviglia di documenti, fotografie, faldoni di uno straordinario archivio del restauro italiano, che a Bergamo ha avuto una vera capitale. E proprio nel nome del suo, credo, trisnonno (nato nel 1798 - come Leopardi - e morto nel 1873), iniziatore di una tradizione che, da attività artigiana, si fa scienza con l'Istituto centrale del restauro, fondato da Cesare Brandi.

Da lui, Lanfranco Secco Suardo, apprendo che, in quella gloriosa avventura, Brandi volle fra i primi magistrali restauratori il mitico bergamasco Mauro Pelliccioli (di cui l'archivio è custodito nel castello). Pelliccioli fu il restauratore per eccellenza dagli anni Trenta agli anni Sessanta. Tutto ciò che di notevole e di sofferente vi è in Italia fu toccato dalla sua mano miracolosa, dal Mantegna della Camera degli sposi a Mantova, agli affreschi di Giotto ad Assisi, ai dipinti di Perugino nella sala del cambio a Perugia, al Cenacolo di Leonardo, ai grandi teleri di Tiepolo a Verolanuova, fino a molti capolavori della Pinacoteca di Brera. La memoria della sua grande avventura è in circa mille unità archivistiche conservate presso l'Associazione Giovanni Secco Suardo. Secco Suardo è la fonte ispiratrice della scuola madre di Bergamo. Il suo Manuale ragionato per la parte meccanica dell'arte del restauratore di dipinti, del 1866, insieme al Taccuino di viaggio nel nord Europa, tra Monaco, Vienna, Dresda, Lipsia e Berlino, sono le basi del restauro moderno. Ed esso si intreccia con il collezionismo e l'amore per gli studi che sempre a Bergamo ha il suo pioniere nell'amico Giovanni Morelli, senatore del Regno, il grande conoscitore cui si deve il metodo della attribuzione attraverso i dettagli (le cosiddette «cifre morelliane»).

Nella casa dove il pioniere Secco Suardo visse vedo una testimonianza notevole dell'insegnamento suo più durevole: la tecnica dello strappo delle opere pittoriche. Effettivamente, nell'Italia dei primi del XIX secolo le operazioni di stacco, ossia il trasferimento di un dipinto su un supporto diverso da quello originale, erano ancora considerate con diffidenza, per l'approssimazione delle botteghe locali. Per sviluppare queste tecniche Giovanni studiò tutta la bibliografia disponibile sull'argomento e cercò di misurarsi con molteplici laboratori italiani e francesi. Tuttavia le tecniche di ogni bottega erano gelosamente protette da un prezioso e orgoglioso segreto professionale (proverbiale nel mago Pelliccioli). Pertanto il conte non sempre riuscì a ottenere le informazioni che cercava. Anche per questo è giusto riconoscere al Secco Suardo il primato nell'idea di condivisione del sapere. Le sue furono preziose e rare indicazioni per i giovani che sceglievano il mestiere del restauratore e anche per gli amatori e i collezionisti che affidavano i loro dipinti alle botteghe.

Il Manuale è frutto di anni di studio. Già verso la metà del XIX secolo, il conte aveva iniziato gli esperimenti di strappo. Il primo intervento fu eseguito sul frammento di affresco che vedo nella sua collezione, un soggetto di tema cavalleresco della seconda metà del Trecento. Il risultato fu così felice che stimolò l'attenzione di Alessandro Brisson (uno dei più rinomati restauratori di Milano), che propose a Giovanni una società. Nel 1857 Secco Suardo ricevette la richiesta dalla Pinacoteca di Brera di trasportare il San Pietro in trono con i santi Giovanni Battista e Paolo di Cima da Conegliano. Nel 1863 questo intervento ottenne la medaglia d'argento al Concorso del Regio Istituto Lombardo di Scienze. Un anno dopo Giovanni ebbe l'incarico, da parte del Ministero della Pubblica Istruzione, di tenere lezioni teorico-pratiche a Firenze, un modo per rendere pubbliche le sue sorprendenti scoperte sperimentali e fare del restauro un mestiere sostenuto su basi scientifiche, oggi sempre reclamate, per una vera tutela del patrimonio artistico. Tuttavia il socio Brisson era un uomo più pragmatico, e si oppose duramente alla diffusione di tali nozioni. Ciò provocò il loro distacco, ma garantì a Secco Suardo la meritata gloria futura.

Dal 1864 fino alla morte, Giovanni visse e operò nel castello di famiglia presso Lurano. Furono anni di intensi studi, scrittura e corrispondenza con gli amici fiorentini e lombardi. In una lettera a Morelli il conte lamentava la mancanza di supporto economico da parte dell'editore del Manuale. Nonostante ciò decise di investire il suo impegno nella pubblicazione del libro, anche vendendo parte della sua collezione. E, con animo generoso, donò all'Accademia Carrara numerosi e importanti dipinti, fra i quali Moroni, Ceruti e Fra Galgario, e disegni importanti come quelli del grande architetto bergamasco Giacomo Quarenghi, lungamente attivo a San Pietroburgo.

Tutto questo vive ancora sulle pareti nude del castello, dove un tempo erano i dipinti destinati all'Accademia Carrara. Nelle stanze semivuote occhieggiano gli archivi dei restauratori che hanno continuato la lezione di Secco Suardo: Arnolfo Crucianelli, Antonio Rava, Carlo Giantomassi, Vito Mameli, Donatella Zari, Gianni Caponi, Alfio Del Serra; in una banca dati con più di 20mila schede.

Ma mentre cammino nelle stanze intatte che ti immergono in un tempo perduto, preservato dalla sensibilità di Lanfranco Secco Suardo, entro in un altro ambiente miracoloso dove, su scaffali e cavalletti, stanno alcuni bizzarri dipinti che ricordano il tempo di «Corrente», tra cubismo e figurazione. È tutto fermo, forse da 40 anni. Si tratta della curiosa esperienza del padre di Lanfranco, uomo schivo e originale, che si dedicò tutta la vita alla pittura cercando una cifra che gli consentisse di esprimere lo spirito più lontano da quello di risarcimento dell'antico del bisnonno Giovanni. Il suo insolito nome è Suardino Secco Suardo. Di lui non si conoscono pubblicazioni o cataloghi, ma la sua opera sommessa e autentica vive unicamente in quello studio, nel quale si vedono originali nature morte, autoritratti, ritratti della moglie e dell'amica, soggetti religiosi, affrontati in modo non convenzionale, per una fede nella sopravvivenza dell'anima più che in Dio. E lo sa bene Lanfranco. Come scrive Cicerone: «la vita dei morti sta nella memoria dei vivi». Ed è questo il pensiero, ed è questo il sentimento di Suardino. L'ultimo Secco Suardi invece, con un'altra scelta, carica di consapevolezza, per una estrema resistenza, ha voluto fermare nella sua casa il tempo e potenziarlo con l'idea di un archivio, che è la conferma della bontà degli studi e delle ricerche del mitico trisnonno, tra le inquietudini del padre. Noi gli dobbiamo gratitudine e riconoscimento anche soltanto per l'atmosfera che è riuscito a conservare nel Castello di Lurano.

Poi la sopravvivenza della memoria si deve alla bontà delle tecniche di Giovanni, testimoniate negli incontri e nei convegni che l'Associazione ha organizzato in questi anni. E questo vale per tutti. La mia è una personale riconoscenza.

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