Negli anni ruggenti della Lega bossiana, il politologo Gianfranco Miglio immaginò la secessione della Padania come una adunata sulle rive del Po: tra ali di popolo festante sarebbe stata proclamata l'indipendenza. Di quel sogno, nei leghisti resta solo un ricordo sfocato. Eppure, alla luce delle vicende catalane, esso conserva qualcosa della forza attrattiva, e insieme della ambiguità insita in ogni progetto secessionista. Perché ripropone l'interrogativo: esiste o no una base legale nei disegni indipendentisti? Oppure si tratta di atti rivoluzionari che, in determinate circostanze, impongono di forza la loro legittimità?
Il punto di partenza è che ogni secessione da uno Stato centrale porta con sé uno scontro interpretativo, in cui si oppongono norma a norma, precedente a precedente. Da un lato, le Costituzioni dell'Europa continentale escludono la possibilità che qualcuno le infranga, visto che sono nate e restano legate al principio della sovranità nazionale. Se è vero, per esempio in Italia, che ogni parlamentare esercita le sue funzioni senza obbligo di mandato perché rappresenta l'intera nazione (articolo 67), qualunque di essi mettendola in discussione minerebbe la sua stessa legittimità. Tanto più che l'articolo 5 definisce la Repubblica una e indivisibile. Non solo: l'articolo 126 prevede lo scioglimento del Consiglio regionale e la rimozione del Presidente della Giunta che abbiano compiuto atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge, per ragioni di sicurezza nazionale. Però - accade ora in Lombardia e in Veneto - il Parlamento può approvare nuovi spazi di autonomia regionale, tanto più se chiesta attraverso referendum con ampio consenso popolare.
Ma il problema si pone se uno Statuto di autonomia concesso nel 2006 alla Catalogna e ratificato da parlamento, re e voto popolare, viene successivamente modificato dalla Corte Costituzionale. Perché il governo Rajoy ora ne impone legittimamente il rispetto, ma la maggioranza dei catalani vorrebbe invece, comprensibilmente, ritornare alla formulazione precedente, quella per la quale aveva votato. Chi ha ragione? E quali basi giuridiche possono invocare i secessionisti? Qui esiste solo l'imbarazzo della scelta, e la formula magica è l'«autodeterminazione dei popoli». La stessa che fu invocata per la prima volta nel 1865, con il «Proclama sulla questione polacca» approvato dalla Prima internazionale alla Conferenza di Londra. Diritto successivamente riconosciuto «a tutti i popoli della terra» dalla Carta delle Nazioni Unite del 1945; e in seguito dai Covenants sui diritti dell'uomo del 1966; e ancora dalla Dichiarazione dei princìpi delle «Relazioni amichevoli» (1970); e soprattutto dall'Atto finale di Helsinki (1975), il più ampio nella formulazione. Ma poiché il diavolo ci mette la coda, esso contiene anche un pomo di discordia giuridica: all'autodeterminazione corrisponde infatti il rispetto per «l'integrità territoriale degli Stati». Dunque, il diritto potrebbe realizzarsi anche senza la creazione di un nuovo Stato.
Ed eccoci di fronte a un altro nodo: che cosa si intende per «popolo»? Non tutti sono disposti a farlo coincidere, come sosteneva Ernest Renan, con un «plebiscito di ogni giorno». Perché se da un lato questa definizione allude alla volontà di «stare insieme», al di là delle identità etniche, linguistiche, religiose o geografiche, ammettendo che sia fatta anche di memorie e appartenenze politiche, che cosa succede se un plebiscito quotidiano indica la volontà di separazione dallo Stato centrale? C'è chi, come Benedetto Conforti, dà una interpretazione restrittiva, e prevede che la formula possa essere applicata «soltanto ai popoli sottoposti a un governo straniero». Altri danno valore al sentimento diffuso d'essere discriminati dallo Stato centrale, oppure privati di risorse economiche. Altri ancora, come Costantino Mortati, affermano che il rilievo politico di un referendum, anche solo consultivo, assumerebbe comunque il carattere di organo supremo della volontà popolare e non potrebbe in alcun modo «conciliarsi con l'esercizio di una funzione subordinata». Il che spiega la strategia della Generalitat catalana: arrivare a un punto di non ritorno, ovvero «cosa fatta capo ha». E ha una sua importanza anche il ruolo del Comitato europeo delle Regioni, istituito nel 1994 con compiti consultivi, ma allo scopo di avvicinare i cittadini alle istituzioni della Ue. Uno dei cardini, il principio di sussidiarietà, mira a un'Europa meno centralista, ma dà anche voce alle «piccole patrie» che bussano con forza alle porte di Bruxelles, con l'ambizione di assumere un giorno dignità di soggetti internazionali. Ma - pensando alla Spagna - nel caso in cui la situazione precipiti, è ammissibile che un governo centrale annulli per ritorsione le prerogative di una Regione autonoma, e che l'Europa resti a guardare?
Non se ne esce, evidentemente, solo in punta di diritto. La secessione, se deve essere, richiede comunque un atto di volontà politica, il consenso maggioritario della popolazione interessata, regole certe e democratiche.
Perché esistono da un lato le prevaricazioni delle maggioranze, ma anche quelle delle minoranze che, al loro interno, possono mettere in atto un gioco a incastro di discriminazioni. «A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro... che ti epura», ammoniva Pietro Nenni, ed è meglio che tutti se ne ricordino.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.