Il secolo di Brando, il principe degli attori che più di tutto odiava la celebrità

L'1 luglio 2004 moriva il divo che ha segnato la storia del cinema. Nato cento anni fa in Nebraska, trovò il successo a New York Ma non si rassegnò mai al prezzo della fama

Il secolo di Brando, il principe degli attori che più di tutto odiava la celebrità

La recitazione, e non la prostituzione, è il più antico mestiere del mondo. Così, almeno, sosteneva Marlon Brando. Che, per qualcuno, è stato il più grande attore della storia del cinema. È stato un uomo che ha segnato il mondo in molti modi: quando si è trattato di stilare una lista delle «persone più influenti del XX secolo», la rivista Time ha posto il suo nome accanto a quello di James Joyce, Picasso, Coco Chanel e i Beatles. Se ci possono essere opinioni diverse sul fatto che sia stato il migliore nel suo campo, è difficile non concordare con il regista Giulio Base quando descrive la notte del suo debutto a teatro come Stanley Kowalski in Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams: «Il lavoro dell'attore cambia per sempre. Allora sulla scena non c'era uno che fingeva, c'era uno che viveva. Su quel palco c'era uno che aveva un magnetismo animale ipnotico (caratteristica che l'ha reso immortale), c'era uno con il fisico da pugile e la faccia da bambino che ti veniva voglia di abbracciare, c'era uno con una sensualità a tratti femminea mista a una forte virilità che sprizzava da ogni poro: insomma, c'era uno che ti lasciava a bocca aperta».

Il fatto straordinario è che questo effetto, di lasciare a bocca aperta, lo provochi ancora oggi, a un secolo dalla sua nascita (avvenuta a Omaha, in Nebraska, il 3 aprile del 1924) e a vent'anni dalla sua morte (il primo luglio del 2004, a Los Angeles). In concomitanza con il doppio anniversario, La nave di Teseo pubblica l'autobiografia che Brando scrisse con Robert Lindsey, che porta un titolo, Le canzoni che mi insegnava mia madre (pagg. 490, euro 20), che apparentemente c'entra davvero molto poco con una carriera fra le più celebri del regno di Hollywood. Ma del resto, su questo punto, Brando è molto chiaro: lui, con Hollywood, non ha mai voluto c'entrarci troppo. Solo quel tanto necessario a guadagnare, senza dover faticare eccessivamente. Il che non significa che non prendesse il lavoro seriamente: alla recitazione Brando si dedicò con grande impegno e all'argomento dedica ampie riflessioni nell'autobiografia, ma non prese mai sul serio ciò che quel lavoro trascinava con sé, ovvero una fama immensa, che ha spinto migliaia di persone a considerarlo un mito, per anni. Nel 1988, quando il giornalista Robert Lindsey ricevette l'invito di Brando per scrivere un libro insieme, l'attore dichiarò subito di non voler parlare di cinema. Ci vollero molti incontri e molta più confidenza per convincerlo a raccontare anche di ciò per cui tutti avrebbero voluto leggere la sua autobiografia: i suoi film.

Nel libro si possono leggere moltissimi aneddoti sul suo lavoro, ma si trovano anche molte pagine dedicate alla sua infanzia, ai suoi genitori, alla madre alcolizzata (che gli insegnò, appunto, centinaia di canzoni) e al padre donnaiolo e anaffettivo (che, quando il figlio divenne famoso, smise di chiamarlo «Buddy» e lo chiamò «Marlon», e che ne sperperò il patrimonio in investimenti fallimentari), alle sorelle, alla tata che gli causò la prima vera ferita da abbandono, alla sua mancanza di disciplina, all'amore per gli animali (mucche, polli, cavalli, procioni...), alle donne, famose e non e, soprattutto, alle sue numerose battaglie a favore delle minoranze. Era un ribelle, con moltissime cause. Si comincia con la sua difesa incondizionata degli ebrei, che conobbe grazie a Stella Adler, la maestra di recitazione che gli insegnò il celebre metodo Stanislavskij e che lo accolse nella sua geniale famiglia; si prosegue con gli afroamericani (marciò accanto a Martin Luther King), i nativi, i poveri, la natura, qualsiasi debole o oppresso potesse cercare di aiutare. Nel 1973 non andò a ritirare l'Oscar per Il Padrino e mandò, al suo posto, l'amica Sacheen Piccola Piuma, perché potesse denunciare il trattamento riservato agli indiani e il razzismo. A un certo punto girò dei film solo per fare soldi per sostenere la causa dei nativi e per mantenere la sua isola, Tetiaroa, che aveva comprato per duecentomila dollari da una americana cieca.

L'innamoramento per Tahiti aveva radici lontane, agli anni dell'Accademia militare di Shattuck, dove amava sognare la Polinesia dalle pagine del National Geographic. L'uniforme gli stava strettissima ma, prima di farsi cacciare per insubordinazione, era riuscito a scoprire Shakespeare e il mondo della recitazione grazie a un professore, il «Duca» Wagner. I suoi commilitoni erano scesi in sciopero per convincere i vertici dell'Accademia a farlo tornare ma, nonostante l'invito, lui si era rifiutato. Si era trasferito a New York, dove la sua vita cambiò completamente.

Dal successo teatrale di Un tram chiamato desiderio al cinema il passo è stato breve e, da lì, il mondo si è spalancato ai suoi piedi: Elia Kazan (il regista da lui più amato), James Dean, Marilyn Monroe, Gillo Pontecorvo (che adorava, anche se quasi quasi si ammazzarono sul set), Charlie Chaplin («il più sadico»), Anna Magnani, John Fitzgerald Kennedy (con cui vinse, barando, una sfida sulla bilancia), Joe Bufalino e John Gotti, Bertolucci e quell'ultimo tango che lo lasciò «esausto e svuotato», e il cuore di tenebra del capitano Kurz, che mise a nudo di fronte al mondo, cambiando tutta la sceneggiatura a Francis Ford Coppola e rasandosi i capelli a zero. Un uomo inseguito e misterioso, una forza potente e irresistibile. Immortale, come Marlon Brando.

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