Selam, un altro passo verso l’umanità

«Viveva in ampi spazi e aveva notevoli capacità adattative grazie ad arti inferiori simili ai nostri»

Sono passati esattamente due anni da quando Nature, la prestigiosa rivista scientifica, diede notizia della scoperta dell’Homo floresiensis, una specie umana estinta soltanto 12mila anni fa. E un mese fa, proprio mentre la scoperta precedente sembrava rivelarsi un flop colossale, la pubblicazione ha dato un’altra notizia sensazionale: nella Dankalia etiope, Zeresenay Alemseged, un ricercatore di origine africana in forza al Max Planck Institut di Lipsia, ha rinvenuto i resti di Australopithecus afarensis, proprio a pochi chilometri da dove fu ritrovata la famosa Lucy.
Rispetto a Lucy, tuttavia, il nuovo individuo ha una caratteristica che lo rende unico e preziosissimo: si tratta di un bambino, forse una bambina di circa 3 anni, che risale a circa 3,5 milioni di anni fa. Per valutare l’importanza della scoperta (che anche qui ci sia il rischio di una notizia troppo pompata?) ne parliamo con Luca Bondioli, antropologo fisico al Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini di Roma. Milanese di nascita, pavese di formazione, romano di adozione, Bondioli, insieme ai colleghi dell’Università la Sapienza di Roma e dell’Università di Firenze (e altri da università straniere), da tempo percorre la stessa regione da cui proviene questa «bambina» alla ricerca di fossili dei nostri antenati. Un progetto di successo centrato nell’area di Buia, che ha ricollocato l’Italia tra i protagonisti del settore e che ha portato alla scoperta di uno dei più importanti reperti conosciuti, la cosiddetta «signora di Buia», che visse un milione di anni fa e che mostra un mosaico interessantissimo di tratti arcaici e moderni al contempo.
Bondioli, è veramente importante la scoperta di questo australopiteco?
«Bisogna premettere che l’Australopithecus afarensis è forse la specie di ominide meglio conosciuta, perché nei 30 anni che ci separano dalla scoperta di Lucy sono stati recuperati centinaia di frammenti di ossa e di denti, in un orizzonte che va dalla Tanzania all’Etiopia. Tuttavia, finora, non si era mai potuto recuperare un reperto altrettanto completo e di un individuo infantile, per giunta. Il suo nomignolo è Selam (cioè pace), ma i media mondiali lo/la hanno battezzato ormai “Il figlio di Lucy”. In realtà la scoperta risale a circa cinque anni fa e da tempo si parlava nell’ambiente del ritrovamento di un bambino, ma gli scopritori sono ritornati per più anni sul luogo del primo ritrovamento e sono riusciti a recuperare un quantitativo ingente di frammenti appartenenti allo stesso individuo».
Sembra che in questo caso gli scopritori non abbiano voluto fare uno scoop e che si siamo presi tutto il tempo necessario per controllare i dati. Ma il clamore suscitato dalla scoperta nei media è fondato?
«Al di là dell’impatto emotivo che la scoperta di un bimbo o bimba ha sull’emozionale collettivo veicolato dai media, il fatto che si tratti di un individuo infantile è della massima importanza, perché questo tipo di reperti sono sempre sottorappresentati, in quanto più fragili. Essi, tuttavia, danno informazioni della massima importanza, visto che possiamo utilizzarli per fotografare i momenti dello sviluppo individuale (ontogenesi) che sono fra i tratti più diagnostici nel confrontare evolutivamente (filogenesi) specie e generi diversi. Conoscere quali siano stati i tempi di formazione dei denti, i tassi di accrescimento osseo, la percentuale del volume del cervello finale raggiunta ci permette di comparare tra loro le scimmie antropomorfe, i nostri antenati e noi stessi».
E che cosa rivela Selam?
«Selam, effettivamente, è un bimbo dalle molte sorprese: è un perfetto esemplare di Australopithecus afarensis. Addirittura è preservato l’osso ioide (un osso impari a forma di ferro di cavallo posto tra la mandibola e la laringe), e finora lo ioide più antico conosciuto era quello dell’uomo di Kebara, che risale a solo 60mila anni fa). Ebbene, nel caso di Selam vediamo che si tratta di uno ioide diverso dal nostro, il che ha spinto qualche collega a ipotizzare la presenza di qualche meccanismo di richiamo. Ma io direi che è presto per darne un’interpretazione funzionale. Gli arti inferiori sono simili a quelli già noti di altri afarensis e sono interpretabili come tipici di una postura eretta quasi simile alla nostra, ma quando andiamo a vedere gli arti superiori e in particolare il cinto scapolare, la faccenda cambia, notiamo che si tratta di una morfologia più simile a quella dei cugini gorilla, che hanno una scapola diversa dalla nostra. Le falangi, inoltre, sono ricurve come nelle specie che si arrampicano sugli alberi, la morfologia dei canali semicircolari dell’orecchio interno (che regolano il movimento dell’occhio in funzione di quello della testa e la cui forma si correla all’andatura) è più simile a quello di uno scimpanzé».
Che cosa ne possiamo dedurre?
«Si tratta di un mosaico di tratti che indicano una bipedia unita a una sostanziale capacità di adattamento a una vita arboricola. In sostanza si capisce che si tratta di una specie che stava perdendo la capacità di essere arboricola per divenire sempre più umana, come sostengono anche i più determinati sostenitori della perfetta bipedia dell’Australopithecus afarensis. Inoltre, dall’ampia documentazione paleoambientale che accompagna il ritrovamento sappiamo che Selam viveva in un ambiente piuttosto variegato, dominato dalla foresta ma con ampi spazi aperti, dove un più ampio repertorio di locomozione e capacità di arrampicarsi poteva rappresentare un vantaggio. Ma la conferma della bipedia dell’australopiteco, ovviamente, non è una novità».
E quali prospettive apre la scoperta di Selam?
«Selam, come ogni scoperta scientifica, ci porta risposte a vecchi interrogativi e pone nuovi problemi. Noi osserviamo un’istantanea del passato raccogliendo francobolli e brandelli di vita pietrificata nelle rocce, ma vorremmo rispondere a domande più impegnative: “Come comunicavano? I loro cuccioli erano simili ai nostri? Quanto vivevano? Che cosa mangiavano? Quanto soffrivano?”. Selam oggi ci permette, forse, di avanzare nelle conoscenze per rispondere a queste domande. Forse il suo ioide ci dirà se esistevano modi di comunicazione non verbale tra di loro, i suoi denti ci potranno parlare di quanto durava la loro infanzia, il loro smalto forse ci potrà dire quanto difficili fossero le loro condizioni di vita e così via. Ma per trovare altre risposte la ricetta, almeno in paleoantropologia, è sempre la stessa: occorrono più fossili, occorre cercare di più, capire di più. Perché le tracce della storia evolutiva sono sparpagliate nei deserti di tutto il mondo.

Cercarli è un’avventura che segna e rende sempre irrequieto chi vi partecipa, perché “nessuno di noi - come ha detto un grande tra i nostri colleghi - potrebbe accettare il rimorso per un sentiero abbandonato troppo presto, una collina non scavalcata, un rischio non affrontato”».

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