SIMON WIESENTHAL

È morto a 96 anni il «cacciatore di nazisti»: dal ’45 lottò tutta la vita per assicurare alla giustizia i criminali di guerra. Eroe del popolo ebraico, è il simbolo della volontà di inchiodare i colpevoli della Shoah

La sua storia parte da molto lontano. Da Buczacz, nel 1908, all’epoca cittadina polacca della Galizia austroungarica, oggi in Ucraina. Simon Wiesenthal era nato il 31 dicembre in quella parte di mondo dove gli ebrei vivevano concentrati in comunità, piccoli e grandi borghi chiamati shtetl; un universo rappresentato nella miglior letteratura ebraica mondiale, raccontata dai Nobel della letteratura come Isaac Bashevis Singer, o Shemuel Agnon, anch’egli nato a Buczacz. Sempre e curiosamente lo stesso luogo dove nacquero anche i genitori di Sigmund Freud.
Il giovane Simon aveva assorbito quelle atmosfere, quei luoghi di cui conosceva pregi, difetti e umori; era il suo mondo di giovane dove cullare aspettative, sogni e speranze. Ma già arrivarono i primi colpi che solo la vita sa dare, quelli che fanno crescere in fretta: il padre venne ucciso durante la prima guerra mondiale e la vita dei Wiesenthal di colpo cambiò: il ragazzo si laureò in architettura, non prima di subire l’umiliazione di non essere ammesso all’ateneo di Lvov, dove per gli studenti ebrei erano arrivati i tempi del numero chiuso. E poi di seguito le tristi cronologie della vita personale che s’intrecciavano con la grande Storia. Il matrimonio con la bionda Cyla Mueller, che pareva destinato a essere vissuto in serena armonia, venne invece interrotto da eventi che non lasciavano scampo: dopo il patto di non aggressione tra Germania e Unione Sovietica, nel 1939, l’Armata rossa occupò Lvov (in polacco Lwow, in tedesco Lemberg, oggi in Ucraina), che allora contava 340mila abitanti di cui 110mila di fede ebraica, dove i sovietici avviarono subito un’azione di brutale azzeramento della società borghese.
Nello stesso tempo affluivano a Lvov oltre 100mila ebrei in fuga dalla Polonia occupata dalla Germania, un’invasione alla quale i sovietici reagirono espellendo un gran numero di ebrei in Siberia. Wiesenthal finì incarcerato nel campo di concentramento e di lavoro di Janowska. Intanto i vertici del nazismo avevano deciso formalmente la «Soluzione finale» al «problema ebraico». La moglie di Simon fu mandata ai lavori forzati e si salvò grazie alla chioma bionda che le valse un passaporto da ariana: l’ebrea Cyla grazie alla prontezza del marito diventò la polacca Irene Kowalska. Ma non per tutti finì così: la madre fu uccisa nel campo di sterminio di Belzec e ben 89 parenti dei Wiesenthal morirono nella Shoah. Lui stesso uscì e rientrò dai campi della morte a un ritmo vorticoso: quattro anni di reclusione scampando a tredici lager, a tre plotoni d’esecuzione e al piombo di un ufficiale delle Ss durante la ritirata tedesca: Ostbahn, Plaszow, Grossen Rosen, Buchenwald, con ultima tappa a Mauthausen.
E poi finalmente giunse maggio, la primavera, e con essa le truppe americane e la liberazione. Correva l’anno 1945. Ma se personaggi straordinari come Primo Levi uscirono dai lager distrutti, e della tragica esperienza hanno portato eterna testimonianza, per Wiesenthal non fu così: il bimbo immerso nelle chagalliane brume di una remota cittadina polacca, lassù a Nord, si era trasformato in un adulto minato nel cuore e nell’anima e che aveva bisogno di azione; un uomo deciso a lottare a qualunque costo per non permettere a criminali e aguzzini di farla franca.
Diventò il più grande cacciatore di nazisti della storia, simbolo e paradigma della coscienza mondiale collettiva. Appena rimessosi dalla permanenza dei lager, iniziò a collaborare con gli statunitensi per documentare le atrocità commesse dai nazisti e per l’acquisizione di documenti utili per il processo di Norimberga. Intanto anche l’Europa appena uscita dalla guerra voleva essere spiritualmente denazificata, anche se in realtà mostrava un’inquietante continuità con il passato. Gli Alleati istituirono subito una War crimes section e un ufficio di controspionaggio. Per due anni Wiesenthal lavorò con loro allo scopo di raccogliere prove di quello che fu subito chiamato «un genocidio» ma che giuridicamente era rubricato tra i «crimini contro l’umanità».
Intanto anche la vita privata di Simon giunse a una svolta: poté finalmente ricongiungersi con la moglie e nel 1946 nacque la loro unica figlia, Pauline. Con l’aiuto di una trentina di volontari, Wiesenthal aprì a Linz, in Austria, il Centro ebraico di documentazione storica allo scopo di raccogliere testimonianze degli ebrei vittime degli ufficiali nazisti sfuggiti alla giustizia degli alleati; una vera e propria «istituzione per una giustizia giusta» che nel 1961 si trasferì a Vienna. Wiesenthal aprì 1.100 procedimenti penali, non tutti però conclusi con condanne. (Tra l’altro individuò Karl Silberbauer, l’ufficiale della Gestapo che arrestò Anna Frank, e contribuì all’arresto di Fritz Stangl, comandante dei campi di sterminio di Treblinka e Sobibor).
La sua vita nel frattempo era finita sotto i riflettori: da cacciatore di nazisti era diventato il mito vivente su cui scrivere libri, girare film e sceneggiati. Ottenne collaborazioni da reduci di guerra, militari e perfino da ex nazisti pentiti che collaboravano con il Centro Wiesenthal da lui fondato. La sua rete d’informatori era in grado di mettere insieme un pacchetto istruttorio, costituito da indirizzi, identificazioni, prove e testimonianze, per poi consegnarlo agli organi giudiziari competenti. Non gli furono risparmiate minacce, né nemici e neppure ostacoli, anche se lui di fatto era diventato il portavoce di coloro che non erano sopravvissuti. Ma il suo vero capolavoro resta il processo Eichmann, il maggior responsabile dell’organizzazione della deportazione degli ebrei verso i campi di concentramento. Un processo che riprese gli argomenti cruciali delle responsabilità morali e individuali dell’agire umano. Eichmann si rivelò incapace di comprendere il significato di quello che il processo realmente rappresentava e non mostrò nessun segno di sincero rimorso e critica verso la folle ideologia razzista del terzo Reich. Fu condannato a morte (caso unico nella storia di Israele) e giustiziato il 1° giugno 1962 nel carcere Ramleh di Tel Aviv.
Durante la sua lunghissima vita Wiesenthal si è spesso interrogato sul perdono, un grande tema di difficilissima soluzione, ma sempre ha sottolineato la sua non volontà di vendetta.

Due anni fa dichiarò: «Il mio lavoro è finito. Se ci fosse ancora qualche assassino vivo, sarebbe troppo vecchio». E sembra di vederlo ancora lavorare nel suo piccolo ufficio di Vienna, curvo e concentrato sulle sue carte e i suoi documenti.
m.gersony@tin.it

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