Non esistono «società» multietniche. Quale che sia la buona fede o l’ingenuità di coloro che si affannano in questi giorni ad affermare il contrario, una società multietnica non può esistere perché una «società» non è data dalla somma di singoli individui, ma dal loro appartenere e vivere in una «cultura». Ogni cultura possiede una sua «forma», creata dalle particolari caratteristiche che distinguono un popolo dall’altro e che si manifestano nella diversa visione del mondo, nella diversa sensibilità nei confronti della natura, nella diversità delle lingue, delle religioni, delle arti, dei costumi, dei sentimenti. Ciò che mantiene in vita una cultura è la «personalità di base» del popolo che l’ha creata, quel particolare insieme di comportamenti che ci fa dire con molta semplicità: gli inglesi sono fatti così, gli americani sono fatti così, gli spagnoli sono fatti così, e che ci permette di riconoscere immediatamente come «tedesca» una sinfonia di Wagner e come «italiana» una sinfonia di Rossini. La diversità delle culture costituisce la maggiore ricchezza della storia umana.
Ma le culture muoiono. La storia ci dimostra che anche le più forti, le più ricche, le più potenti, a un certo punto spariscono e non sempre perché distrutte da conquistatori di guerra. È sparita quella straordinaria dell’antico Egitto di cui ci rimane, oltre all’immensa ammirazione per le piramidi, anche la consapevolezza di essere talmente diversi da non sapere come abbiano fatto a costruirle; è sparita quella di Omero, di Fidia, della cui morte non riuscivano a darsi pace prima di tutto i romani che hanno fatto l’impossibile per conservarla in vita, ma in seguito innumerevoli pensatori, poeti, artisti d’Occidente così che a un certo punto Hegel ha perso la pazienza e gli ha gridato in faccia brutalmente l’unica risposta: «Laddove un tempo il sole splendeva sui greci, oggi splende sui turchi, dunque smettetela di affannarvi e non ci pensate più!». È così, infatti: sono gli uomini i creatori e portatori di una cultura; non appena sopraggiungono altri uomini, portatori di un’altra personalità di base, di un’altra cultura, quella invasa deperisce e muore. Non è necessario neanche che gli invasori siano numericamente in maggioranza: l’invasore è sempre il più forte per il fatto stesso che si è impadronito del territorio di un altro e che si aggrappa, molto più che a casa propria, ai costumi, ai cibi, ai riti, alla religione della sua cultura nel timore di perdere la propria identità.
Chiunque neghi questo, nega agli esseri umani, invasori o invasi che siano, ciò che li contraddistingue come «uomini», riducendone i bisogni e gli scopi alla sopravvivenza biologica. «Non di solo pane vive l’uomo». La Conferenza episcopale italiana sembra essersene dimenticata e tocca a noi, italiani e convinti che la nostra «cultura» debba essere salvaguardata, come e più delle altre, anche per tutto quello che contiene della bellezza del messaggio evangelico, domandare ai vescovi se non sia il caso che essi si interroghino, prima di tutto su che cosa significhi per loro definirsi «italiani», e poi su quale sarà il prossimo (vicinissimo) futuro del cristianesimo in Italia. Riteniamo anche che tocchi a noi, proprio perché laici e convinti che la libertà del pensiero sia il patrimonio irrinunciabile dell’Occidente, difendere il messaggio di Gesù dal tentativo sempre più pressante, e tragicamente traditore, di ridurlo a una variante dell’Antico Testamento e, di conseguenza, anche dell’islamismo. Senza la ribellione di Gesù alla mentalità normativa e tabuistica dell’ebraismo, senza la forza del suo comando: «La vostra parola sia: sì sì, no no», così simile all’assoluto valore riposto dai romani nella propria parola, i suoi seguaci non avrebbero capito che il destino del cristianesimo era Roma.
E la sinistra? Strano a dirsi, si comporta più o meno come la Chiesa. Cosa pensa di fare degli italiani, della cultura italiana, quella sinistra che per tanti anni è stata l’unica forza politica a interessarsi di antropologia, a pubblicare Lévi-Strauss, Malinowski, Foucault, Leroi-Gourhan? Perché adesso tace di fronte alla morte della cultura italiana, dopo aver tanto pianto sulla morte delle culture primitive? Perché ci odia? Perché non fa per gli immigrati l’unica cosa giusta e che sarebbe in grado di fare molto meglio degli altri partiti, ossia aiutarli a rimanere nel proprio Paese? Non è iscrivendoli all’anagrafe come italiani che gli stranieri creeranno le melodie di Monteverdi o di Puccini, dipingeranno le Madonne di Raffaello o di Mantegna, scriveranno i versi di Petrarca o di Leopardi. Né si dica che gli stranieri servono a combattere il decremento demografico. Gli italiani fanno pochi figli per tre motivi principali. Il primo: siamo troppi per l’estensione del nostro territorio (260 abitanti per chilometro quadrato contro, per esempio, i 22 abitanti per chilometro quadrato degli Stati Uniti), senza tener conto del fatto che la maggior parte del territorio italiano è formato da montagne. La natura segue le sue leggi di sopravvivenza e, a causa dell’eccessiva densità, fa diminuire la prolificità. Non può sapere che i politici lavorano contro le sue leggi, col risultato che più gente entra, più la natura cerca di far diminuire gli abitanti, ossia gli italiani dato che è nell’interesse degli immigrati fare più figli che possono diventare maggioranza. Il secondo motivo consiste proprio nel senso di condanna a morte che si respira nell’aria. Non c’è bisogno di spiegazioni antropologiche: la gente sente benissimo di essere assediata e che non le è permesso neanche il più piccolo gesto di difesa. A che pro fare figli se non servono a conservare ciò che è italiano? Infine, il terzo motivo: la difficoltà concreta di provvedere ai figli. Questo sarebbe superabile se tutte le forze, il denaro, gli interessi della nazione fossero concentrati sui bisogni della procreazione, delle madri, delle famiglie. Ma non è così.
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