A cinque anni dal Covid ancora non riusciamo a contagiarci in positivo

Il Parlamento ha scelto quella data per fare memoria della pandemia. Mi sembra purtroppo che tutti ricordino i fatti ma siano stati dimenticati gli insegnamenti

A cinque anni dal Covid ancora non riusciamo a contagiarci in positivo
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Piove, non possiamo andare. Che peccato! Si è rotto il vaso. Che peccato! È finito il vino. Che peccato! Non è riuscito a venire. Che peccato! Non c'è la mia taglia. Che peccato! Sei già impegnata. Che peccato! L'ho perso. Che peccato! Sono passati cinque anni dalla pandemia. Che peccato!

Ma come? Non dovremmo esserne felici? Non so. Se la sensazione di «peccato» è spontaneamente legata ad una mancanza, mi sembra che oggi dobbiamo confessare di aver perso l'occasione di imparare qualcosa. Che peccato! Sono passati cinque anni dalla sera del 18 marzo 2020, quando il corteo dei camion militari uscirono dal cimitero di Bergamo per portare le bare in diversi luoghi di cremazione. Io ero lì. Mi viene la pelle d'oca a pensarci e ancora di più al ricordo dei furgoni dei Carabinieri che dopo alcuni giorni riportarono in scatoloni le decine di urne con le ceneri.

Il Parlamento ha scelto quella data per fare memoria della pandemia. Mi sembra purtroppo che tutti ricordino i fatti ma siano stati dimenticati gli insegnamenti. In quei giorni la percezione comune aveva stigmatizzato una scala dei sintomi del Covid: il non sentire profumo, il perdere il gusto, un malessere che debilita, la temperatura che sale, il fiato che manca fino a soffocare. Ognuno guardava a sé e si auto-diagnostivava: «ci siamo!». In questi giorni non c'è più il pericolo del virus, ma i sintomi siano rimasti a livello psicologico. Non si sente più il profumo della quotidianità, solo le puzze sotto il naso. Si perde il gusto e aumentano

ansia e depressione. Si insinua un malessere che debilita, con frustrazione e sfiducia. Sale la temperatura emotiva familiare, sociale, politica, internazionale ed esplode l'ira verso tutto e tutti, impastata di rabbia che vede nemici ovunque. Comincia allora a mancare il fiato per intolleranza e impazienza. Così si soffoca e si annaspa.

Oggi chi guarda a se stesso forse deve auto-diagnosticarsi: «non ci siamo!». Prima del covid si ripeteva in continuazione: l'importante è essere positivi, essenziale è circondarsi di persone positive! Queste stesse parole divennero poi un incubo. Il concetto di «positività», dopo essere stato contagiato anch'esso, da allora viene usato poco. Dopo cinque anni, ho la sensazione che ci sia bisogno di correre al riparo cercando l'ossigeno di idee positive, mettendo mascherine che riparino da bocche urlanti pessimismo, attuando l'igienizzazione della responsabilità sociale, garantendo il distanziamento dalla rabbia e investendo in una nuova responsabilità personale perché ognuno può essere per se stesso, per le persone che ha accanto e gli sono affidate e per la situazione in cui vive, un rianimatore, uno che ri-anima, che ci mette l'anima e che ridona anima per espirare il male e ispirare il bene, per espirare il passato e inspirare il futuro.

Si pensava di aver capito col covid il senso della mancanza per comprendere la preziosità dei legami e dei sentimenti. Che peccato! Si pensava di

aver scoperto l'essenzialità della famiglia. Che peccato! Si pensava di aver intuito il valore del capitale umano e la preziosità della cura delle relazioni personali nel mondo del lavoro e della scuola. Che peccato! Si pensava di aver capito l'importanza di un bacio, di un abbraccio, di una stretta di mano, di un caffè e che un telefono non dà mai tanto quanto un incontro. Che peccato! Si pensava di aver guadagnato la bellezza della natura disinquinata che faceva sorgere germogli dall'asfalto, che spingeva i delfini a tornare a riva, che nuovamente riempiva il cielo limpido del canto degli uccellini. Che peccato! Si pensava di aver sperimentato che è bello stare in tuta, perché si lavora per vivere e non si vive per lavorare. Che peccato! Si pensava di aver tatuato sul cuore la sensibilità al dolore o la tenerezza verso una lacrima o la densità del commuoversi invece che brontolare sempre. Che peccato. Si pensava che fosse emersa la forza del volontariato e di una solidarietà a misura di pianerottolo. Che peccato!

Come diceva Oscar Wilde, però, la differenza tra un santo e un peccatore è che ogni santo ha un passato e ogni peccatore un futuro. Perciò, se il passato è una lezione, il presente è opportunità e il futuro è motivazione.

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