Le colpe dei padri non ricadano sui figli. E neppure i selfie. Già perché - come ha giustamente notato lo psicoterapeuta Paolo Crepet - «i genitori imitano i figli, chattano e si mettono in posa per le foto di Instagram». Fanno i giovani, anche se non lo sono più. Anzi: soprattutto se non lo sono più. Imitano un linguaggio che non è il loro e che a volte non sarà mai il loro. C'è chi lo fa per sentire qualche anno in meno (del resto chi non ha paura di invecchiare?) e chi invece pensa che comportarsi da amico sia meglio di fare il padre o la madre. Ma non è così. Perché sì, è certamente bello ridere e scherzare con i propri figli. Ma ancora più bello è dimostrarsi adulto, participio passato del verbo latino adolescere, che indica colui che ha smesso di crescere. Colui che ha raggiunto il proprio compimento non solo fisico ma anche, e soprattutto, psichico. E che ha quindi il compito di condurre gli adolescenti - che hanno invece tutto il diritto e il dovere di crescere - alla maturità.
Per farlo, però, il genitore non può «retrocedere» ad adolescente. Non può imitare pose, atteggiamenti e, soprattutto, modi, di chi dovrebbe guidare.
Non a caso, Crepet sostiene che i genitori-amici stiano arrecando parecchi danni alle nuove generazioni, che non hanno più punti di riferimento con i quali condividere le domande essenziali della loro vita: chi sono? Perché sono al mondo? O, per citare Bruce Chatwin, che ci faccio qui? I ragazzi si trovano soli a condividere, tutt'al più, storie e selfie sui social. Momenti immortalati ma raramente vissuti in quest'era di Narciso dove il linguaggio è ridotto a immagine e la parola - che è logos e ragione - scompare lentamente.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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