La sinistra contro il matrimonio: cosa c'è dietro l'odio rosso

Unioni civili, divorzio facile e levata di scudi contro il sostegno per le cerimonie: ecco perché i progressisti vogliono cancellare la vita coniugale e come impedirlo

La sinistra contro il matrimonio: cosa c'è dietro l'odio rosso

La sinistra odia il matrimonio. O forse no, dipende da chi sono gli sposi. Meglio ancora, come vedremo, dipende da quanto sono seri gli impegni nuziali. Abbiamo fin troppi esempi, in ogni caso, di quanto si sia complicato – almeno negli ultimi decenni – il rapporto del mondo progressista con l’istituzione più antica della civiltà umana. Per averne una conferma, basta guardare alla recentissima levata di scudi dell’opposizione, di fronte a una proposta di legge avanzata alcuni parlamentari della Lega, che puntava a detassare le spese per le cerimonie nuziali.

La sinistra – e pure il terzo polo – sono insorti per avere sentito accostare al matrimonio la parola “religioso”. Tuttavia, a ben vedere, l’ostilità progressista verso l’istituzione si estende a tutte le forme con cui le nozze possono venire celebrate. Salvo che gli sposi non siano dello stesso sesso. O per meglio dire, abbiano il cattivo gusto di voler ricordare al mondo che la differenza sessuale può avere ancora qualcosa a che fare con il matrimonio.

Ma a parte tutte le possibili considerazioni sulla laicità dello Stato, che cosa fa tanto paura alla nostra sinistra del matrimonio? Che cosa la rende tanto ostile a un’istituzione che un antropologo come Claude Lévi-Strauss pone all’origine niente meno che di tutta la civiltà umana, e dell’idea stessa del diritto? Ricordiamo infatti che, a detta di questo grande studioso non sospettabile di simpatie destrorse, il matrimonio è stato la prima forma di contratto ideata e stipulata tra le tribù primitive, all’alba della presenza degli uomini sulla terra. Il suo scopo originario era quello superare il tabù naturale dell’incesto, e consentire così la nascita di rapporti di fiducia e di affari anche al di fuori della cerchia dei consanguinei.

E allora, perché la sinistra sembra avere iniziato a odiare il matrimonio? Un indizio ci arriva, come al solito in questi casi, da quello che avviene oltreoceano. Lo scorso 16 novembre, infatti, il Senato statunitense ha dato un importante via libera al Respect for Marriage Act (Rma), disegno di legge che punta a codificare le nozze non eterosessuali, e forse nemmeno monogamiche, come un diritto a livello federale. L’iniziativa è nata con lo scopo dichiarato di scongiurare il rischio che la Corte Suprema possa fare, per via giudiziaria, ciò che lo scorso giugno ha fatto in materia di aborto, rendendo non più intoccabile – e scatenando così le ire funeste dei democratici – il precedente della famosa sentenza Roe Vs. Wade.

Il fine del suddetto Rma è per l’appunto quello di far sì che venga reso vano ogni eventuale futuro ribaltamento giudiziario della recente sentenza Obergefell Vs. Hodges. Si tratta di una decisione della Corte Suprema che, nel 2015, ha riconosciuto alle coppie dello stesso sesso la possibilità di contrarre matrimonio in tutto il territorio nazionale.

Dunque, alla sinistra americana – alla quale non solo i nostri dem nazionali, ma anche quelli di tutta Europa si accodano pedissequamente – non è che non piaccia il matrimonio in quanto tale. Ciò che li manda nei matti è che l’istituto possa non essere “egualitario”, come dicono loro. Cioè, che ponga dei limiti alla libertà degli sposi nel costruire la propria relazione. Non solo vincoli basati sulla differenza sessuale, ma in generale su tutto ciò che non consenta la libera esplicazione del desiderio.

Tanto che, sulla scia della citata sentenza Obergefell Vs. Hodges, un tribunale newyorkese, poco più di un mese or sono, ha fatto proprio il ragionamento che in quell’occasione è stato paventato dalla minoranza conservatrice dei giudici della Corte Suprema: quello per cui ammettere lo same-sax marriage sarebbe stata la porta di accesso alla legalizzazione della poligamia.

Il predetto tribunale della Grande Mela, infatti, proprio partendo dalla suddetta sentenza si è dichiarato favorevole al riconoscimento della poligamia “come parte dell’istituzione matrimoniale”. Infatti, ha osservato che la Obergefell Vs. Hodges rappresenta “la porta alla considerazione di altri costrutti relazionali”. Quindi, se il matrimonio è un diritto fondamentale necessario a chiunque per realizzare la propria personalità (o meglio, l’Io e le sue voglie, per dirla come un inesauribile papa Ratzinger), negare l’accesso ai fiori d’arancio a qualsiasi persona voglia unirsi con un’altra, anche se contemporaneamente già sposata, sarebbe una discriminazione. Con questi presupposti, secondo i critici, la prossima frontiera sarà inevitabilmente lo sdoganamento della pedofilia.

Ciò che atterrisce le anime belle del mondo progressista e arcobaleno, in realtà, è qualsiasi limitazione alla esplicazione del desiderio individuale. Più che i vincoli naturali della differenza sessuale, o quelli della esclusività del rapporto nuziale, a loro fanno paura i limiti temporali. A sinistra non si sopporta che il matrimonio sia “per sempre”. Tanto che, a ben vedere, nella nostra recente legge Cirinnà ci si è premurati di rendere agevole lo scioglimento delle unioni civili, che tra l’altro non prevedono l’obbligo reciproco di fedeltà. Inoltre, tutte le modifiche del diritto di famiglia italiano che sono state introdotte da sinistra, negli ultimi anni, se qualcosa hanno avuto in comune è l’intento di rendere le separazioni e i divorzi sempre più facili, il meno possibile costosi e soprattutto rapidi.

Eppure, se si guarda alla realtà senza le lenti deformanti della ideologia dei desideri, si capisce immediatamente che è proprio il costante allentamento dei vincoli di qualsiasi tipo che rende le coppie sempre più sospettose nei confronti del matrimonio. Se gli omosessuali guardano alle nozze “egualitarie” come a un feticcio per affermare la loro libertà, le coppie etero invece ne rifuggono sempre più, rifugiandosi nelle convivenze informali. Ma lo fanno proprio perché temono l’impossibilità futura di chiedere conto al partner degli impegni con i quali loro stessi, sposandosi, avevano accettato di compromettersi.

Qualunque avvocato familiarista dotato di buon senso deve riconoscere che, se tanti giovani non si sposano più, è solo perché hanno paura della estrema facilità con la quale il coniuge potrà divorziare da loro. Con tutte le conseguenze anche patrimoniali che questo comporterebbe. Ciò che spaventa i promessi sposi dei nostri giorni non sono tanto le spese della fiorista o del fotografo. Piuttosto, li atterriscono tutti i futuri drammi che potranno derivare, in caso di separazione, dall’aver messo in comune il reddito e il patrimonio. Soprattutto la casa, che per chi si sposa oggi è quasi sempre proveniente, se di proprietà, dalle generazioni precedenti. Per non parlare degli oceani di sofferenza esistenziale che possono scaturire dalla rottura dell’alleanza tra genitori.

Non è insomma la mancanza di libertà a fare paura a chi si vuole sposare. Quella semmai è una fissazione della sinistra. In realtà, le persone reali temono proprio l’impossibilità di trovare garanzie che giustifichino i compromessi alla libertà individuale che, necessariamente, vengono imposti dal matrimonio. Tanto che tra gli statunitensi, che di libertà se ne intendono, in alcuni Stati si è cercato di arginare la fuga dalle nozze non mediante il same-sex marriage, che statisticamente interessa a pochissimi. Piuttosto, si è introdotta la possibilità di stipulare un contratto nuziale che conservi un minimo di obbligatorietà.

Si tratta del cosiddetto covenant-marriage, termine traducibile in italiano come matrimonio-alleanza, che viene offerto come possibilità proprio per evitare i rischi, o per meglio dire la insensatezza, di quello che ormai apertamente viene chiamato non-binding marriage, cioè matrimonio non vincolante. Non si tratta, beninteso, di un matrimonio dal quale non si possa mai divorziare. Ma nemmeno di un vincolo lasciato alla totale discrezionalità degli sposi (per disciplinare la quale, negli Usa, è piuttosto data ampia libertà di stipulare convenzioni matrimoniali, cioè di contratti che in alcuni Stati sono ritenuti validi anche se stabiliscono regole bislacche per la nostra sensibilità, come il numero minimo o massimo di rapporti sessuali al mese).

Il covenant-marriage è invece un tipo di matrimonio che può essere stipulato, a seconda della scelta delle parti, sia davanti a un ufficiale di stato civile che a un ministro di culto. La sua specialità consiste nel fatto che gli sposi, per il caso di futura crisi, si obbligano preventivamente a chiedere consulenza e mediazione familiare, nonché ad attendere un congruo periodo di tempo per l’eventuale separazione. In tale ipotesi, essi saranno altresì tenuti a trovare accordi che garantiscano i loro comuni doveri educativi, e non solo economici, nei confronti dei figli.

Insomma, si tratta dell’obbligo di indicare ancora prima di sposarsi una futura exit-strategy, per dirla sempre in termini anglosassoni, che renda meno dirompente l’eventualità della crisi matrimoniale. A detta degli studi che si sono fatti al riguardo, l’idea sembra funzionare. Ma nonostante la sua apparente saggezza, negli Stati Uniti questo particolare istituto tuttora esiste solo in Louisiana (che fu la prima a introdurlo nel 1997), Arizona e Arkansas.

Il covenant marriage sarebbe invece un buon rimedio alle ansie che tengono lontani i nostri giovani dal matrimonio – sia esso religioso oppure civile – e di conseguenza favoriscono il crollo della natalità, che giustamente tanto preoccupa il nostro attuale governo.

Come annotato da Zygmunt Bauman, il pensatore che ha inventato la definizione di “società liquida” per definire lo stato della nostra civiltà, e dunque anche quello – penoso – delle nostre relazioni di coppia: “la solitudine genera insicurezza, ma altrettanto fa la relazione sentimentale. In una relazione, puoi sentirti insicuro quanto saresti senza di essa, o anche peggio. Cambiano solo i nomi che dai alla tua ansia” (cit. da “Amore liquido”, Laterza, 2003).

Proprio per questo motivo, piuttosto che rendere il matrimonio sempre più incerto e friabile, sarebbe il caso di restituire ad esso il suo significato di istituzione fondamentale per tutta la vita civile. Il matrimonio è qualcosa della quale è necessario potersi fidare. Ma la sinistra sembra non capirlo.

Tanto che, a ben vedere, il covenant-marriage, a venticinque anni dalla sua prima istituzione è ancora adottato da soli tre stati Usa. Tutti e tre, peraltro, – a parte la Louisiana – di tradizioni nemmeno troppo solidamente repubblicane. Ai democratici di ogni latitudine, tuttavia, interessa ben altro. Ma è quell’altro che ci sta trascinando a fondo.

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