Somalia, stanno bene gli italiani rapiti La Farnesina chiede il silenzio stampa

Il ministro Frattini rassicura sulle condizioni degli ostaggi. «Avviati contatti, massimo riserbo sulle trattative»

Sono vivi e i primi contatti con i rapitori sono già avviati, ma riportarli indietro non sarà né facile, né veloce. Il ministro degli esteri Franco Frattini distilla le parole, misura ogni dichiarazione sul caso di Iolanda Occhipinti, 51 anni, e Giuliano Paganini, 64, i volontari del Cisn rapiti in Somalia assieme ad Abderhaman Yusuf Arale, responsabile locale dell’organizzazione umanitaria. «Invito alla cautela per non mettere a repentaglio la loro sicurezza, molte notizie sono inventate» - esordisce il ministro. Poi conferma il contatto con i rapitori facendo sapere che i due italiani «stanno bene». Le notizie ufficiali si bloccano lì, in sintonia con i desideri di Valentina, la figlia di Giuliano Paganini che implora il massimo riserbo «per non intralciare l’azione tesa ad assicurare l’incolumità degli ostaggi».
L’abboccamento con i rapitori non sarebbe neppure diretto, ma avverrebbe attraverso la mediazione degli anziani delle tribù locali. Anche la matrice del gesto resta sconosciuta. La Farnesina preferisce non attribuire valenze politico-religiose al sequestro, ma la regione dello Shabelle, 70 chilometri a sud di Mogadiscio, è una roccaforte degli Shebab, i militanti fondamentalisti in lotta contro il governo di transizione appoggiato da Etiopia e dagli Stati Uniti. Gli «shebab» avevano annunciato azioni ai danni di esponenti stranieri subito dopo l’eliminazione, all’alba del primo maggio, del capo militare Adan Ashi Ayro ucciso, insieme a una ventina di militanti, da un bombardamento americano.
«I contatti che abbiamo non possono essere divulgati» - spiega il ministro chiedendo di evitare «notizie non controllate che possono nuocere alla soluzione del rapimento». Per i negoziatori è più semplice, ovviamente, trattare con una banda di delinquenti comuni, interessati soltanto ad un riscatto materiale, piuttosto che affrontare i ricatti di un gruppo integralista interessato ad un riconoscimento politico o, peggio, ad un insidioso scambio di prigionieri con il governo transitorio.
Un ruolo importante nella mediazione potrebbe giocarlo l’Eritrea, l’ex colonia italiana trasformatasi negli ultimi anni nel santuario delle forze integraliste somale. Sui territori eritrei si sono rifugiati dopo la cacciata da Mogadiscio del dicembre 2006 i massimi responsabili delle Corti Somale sopravvissuti alla caccia degli americani e dell’esercito etiope. Da lì fa sentir la sua voce, promettendo di mettere in fuga etiopi ed americani, il 62enne sceicco Hassan Dahir Awes, un ex esponente delle Corti Islamiche definito da Washington un pericoloso terrorista collegato ad Al Qaida. «George Bush chiama terrorista chiunque non sta dalla sua parte, ma le accuse di collegamenti con Al Qaida sono false, libereremo la Somalia dagli etiopi e formeremo un governo di unità nazionale» - promette Awes in un intervista dal quartier generale dell’Asmara.

Pur di contrastare la politica della “nemica” Etiopia l’Eritrea del vecchio e inflessibile Isaias Aferwerki, ha tagliato ogni rapporto con gli Stati Uniti e l’Occidente trasformandosi nella paladina dei gruppi integralisti. E quando 17 mesi fa l’esercito di Addis Abeba ha assestato il colpo finale alle corti islamiche entrando in Somalia l’Eritrea ha subito concesso asilo ai fondamentalisti in fuga da Mogadiscio.

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