Sonego, raccontare l’Australia all’italiana

Una rappresentazione perfetta e d’impressionante incisività della «maschera» nazionale, frutto dell’incontro fra canovacci millenari e il genio guittesco di comédiens di ineguagliabile bravura, perché temprati allo spietato gusto del pubblico della rivista, dell’avanspettacolo, del varietà. È questa la definizione che i dizionari del cinema danno della cosiddetta commedia all’italiana; e al pari di molte definizioni di comodo ha una superficie lusinghiera, ma un cuore un po’ di tenebra.
Lo rivela adesso il Diario australiano (Adelphi, pagg. 105, euro 5,50) di Rodolfo Sonego (a cura di Tatti Sanguineti), il più assiduo e fecondo degli sceneggiatori di Alberto Sordi. Si tratta di appunti presi nel 1970 in vista del celebre Bello, onesto emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata, con la Cardinale nel ruolo della siciliana rivelatasi tanto illibata quanto può esserlo una prostituta: come a dire uno dei film più amati girati dall’attore romano. Sonego atterra e riparte in un congruo numero di aeroporti del Sud-Est asiatico (prendendosi tra l’altro un morbo misterioso, una forma di colera, che si paleserà nella sua gravità solo dopo qualche giorno) per ritrovarsi in un continente pieno di canguri ridotti ad una frittella sanguinolenta perché investiti «da una macchina passata prima di noi», o di serpenti uccisi nella foresta, serpenti che gli immigrati si avvolgono attorno alla testa traendone il più pazzesco dei turbanti animalier. Sui treni, nei ristoranti, persino al volante dei tassì si aggirano ragazze dalle gambe lunghissime e dalle minigonne cortissime, spesso ubriache, ebbre regine di sgangherati paesi dove «tutto è oro». Un oro che nemmeno serve: il minatore che se ne appropria finisce infatti per dilapidarlo al bordello, mentre quello che onestamente lo cede ai proprietari della miniera viene licenziato in tronco, come premio per la stramberia.
Lentamente, accanto allo scopo dichiarato del viaggio, ne affiora un altro: consegnare dei soldi alla sorella povera, anche lei emigrata in Australia, che lo sceneggiatore non vede da vent’anni. Progetto apparentemente struggente, nazionalpopolare, non fosse che Sonego, a tratti, pare nuotare nello stesso acquario degli sradicati di Wenders, tutto alienazione e spaesamento. Certo l’alienazione, la dolce alienazione, era allora di moda; e poi le note di viaggio di chiunque tendono spesso senza volerlo al minimale, all’école du regard.

Meglio insomma tener duro, e non cedere alla tentazione di trattare i sopralluoghi di un cinematografaro alla stregua di un’appendice allo Straniero di Camus; ma il sospetto di una distanza da entomologo, di una matrice ragionata della nostra commedia, beninteso rimane. Intanto, solo pochi anni dopo la spiazzante escursione di Sonego, Arbasino percorrerà un’Australia profondamente mutata, trasformatasi in un gigantesco sit-in progressista.

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