Sparito big della finanza, si teme il sequestro

La moglie: «Gli ho parlato una seconda volta dopo due giorni e mi sembrava tranquillo»

Paolo Stefanato

Enrico Lagattolla

da Milano

È considerato - ma non sono giudizi di circostanza - una delle due-tre menti più lucide che la finanza italiana abbia espresso nell’ultimo quarto del Novecento. Gianmario Roveraro, ligure di Albenga, classe 1936, ha impresso il suo nome in alcuni degli eventi più importanti che hanno smosso quel mondo paludato, ma soprattutto ha avuto visioni ampie e creative: con il difetto, talvolta, di agire in anticipo rispetto ai tempi.
Diventa un protagonista - a dispetto del suo carattere schivo, dei modi semplici, della condotta ascetica - quando, nel 1974, assume la carica di amministratore delegato della Sige, banca d’affari dell’Imi, gruppo romano guidato da Luigi Arcuti. Dà un’impronta di creatività a una società che ben presto porta a diventare un autentico concorrente dell’«intoccabile» Mediobanca di Enrico Cuccia; e visto che lui è un cattolico, anzi, di più, un cattolicissimo e orgoglioso membro dell’Opus Dei, si configura un’inedita contrapposizione tra finanza laica (Mediobanca) e Sige. Il pallino di Roveraro è quello di svecchiare l’apparato economico-finanziario italiano, di far crescere la Borsa quotando tante solide imprese familiari di dimensioni medie. È lui - o meglio la Sige - a soffiare a Mediobanca la quotazione della Benetton, che l’allora via Filodrammatici mostrò di aver sottovalutato. Dietro i suoi disegni c’è intuizione, intelligenza, progettualità.
Con Arcuti inizia un braccio di ferro sull’utilizzo del patrimonio - 25mila miliardi di lire di allora - dei fondi d’investimento esteri dell’Imi; Roveraro (che, detto tra parentesi, nel 1960 - vero antesignano - si era laureato proprio con una tesi sui fondi) vuole portarlo sotto la Sige, ed è sconfitto. E certo aggrava il rapporto Sige-Imi il sostegno che Roveraro dà a due delle più clamorose scalate di quegli anni: quella della Montedison di Mario Schimberni alla Bi-Invest di Carlo Bonomi, e quella, successiva, di Raul Gardini alla stessa Montedison.
La rottura - inevitabile - con Arcuti, avvenuta nel 1986, è la molla per dar vita a un progetto ancora più grande, ambizioso anche nel nome: Akros, che in greco vuol dire vetta, punto più alto. La merchant bank nasce un anno dopo ed è un progetto che fa molta sensazione. Roveraro riesce a coinvolgere 163 soci, che versano in piccole quote, praticamente paritetiche, i 200 miliardi di lire del capitale. Si crea una platea di grandi e piccoli gruppi, di società quotate e non quotate, metropolitane e di provincia; ci sono i Ferruzzi, la Fiat, De Benedetti, ma anche nomi meno noti al pubblico, come la meteora Accornero, i Bastianello della Pam, i Bertazzoni della Smeg. Il disegno è quello interrotto alla Sige: valorizzare l’industria, arricchirla di finanza, far crescere le imprese di provincia, portarle in Borsa, alimentare il mercato azionario e condurlo verso nuove strade di trasparenza grazie proprio a dimensioni meno marginali.
Ma l’idea illuminata non decollerà mai in tutta la sua potenza. La Akros gestirà molte operazioni, ma rimarrà sempre una delle tante banche d’affari, mai la prima. Roveraro ha carisma, ma un limite: è capace di gestire lo slancio, non l’ordinaria amministrazione, tantomeno le crisi. Nel 1997 lascia. Nel 1998 Akros sarà venduta.
Ma gli strascichi restano.

Roveraro, considerato vicinissimo a Calisto Tanzi, nel 1990 è il regista dell’arrivo in Borsa della Parmalat, già in affanno per i debiti, tramite la scorciatoia della Finanziaria Centro Nord. Akros acquista il 5% del gruppo. E su Roveraro, a molti anni dalla sua uscita di scena, oggi pende la richiesta di rinvio a giudizio per il crac Parmalat: i reati sono bancarotta e associazione per delinquere.

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