Quando fata D'Avena cantava che guardare la tv non fa male

È il simbolo degli anni Ottanta "vuoti", "commerciali", "disimpegnati". Snobbata dagli intellettuali, in realtà ci ha salvati dall'intellettualismo

Quando fata D'Avena cantava che guardare la tv non fa male

Cristina D'Avena festeggia 30 anni di carriera. I suoi 30, sono anche i nostri. Dei trentenni di oggi, nati e cresciuti con le sue canzoni. Certo, è tipico di ogni generazione pensarsi irripetibile. E cristallizzare il proprio tempo, specie se irrimediabilmente perduto, come indimenticabile, impareggiabile, imbattibile. Spesso, proprio gli intellettuali che dovrebbero capirlo, sono adusi vituperare il presente, liquidando le generazioni future come volgari sicari di ogni bellezza e di ogni buonsenso. Partendo dal presupposto che la maggior parte delle considerazioni generazionali lasciano il tempo che trovano, la generazione dei nati negli anni '80, figli del boom della speculazione e delle macerie del Muro, ha il compito di sfatare un grande mito: che guardare la televisione faccia male.

Noi l'abbiamo divorata. E, con tutti i nostri limiti, forse è proprio grazie alla tv commerciale che non siamo diventati psicointellettuali da centro sociale, con la fissa del teatro sperimentale e del movimentismo immobile. In un certo senso, la tv è stata l'antidoto al sessantottismo di ritorno, al reflusso degli eterni sconfitti che ha monopolizzato (e ancora monopolizza) l'establishment culturale italiano. Oggi, grazie al rinascimento dei serial, specie americani, scritti e messi in scena per rappresentare le sfumature di grigio della moralità umana, la tv è il laboratorio della narrazione, di molto all'avanguardia rispetto a cinema e letteratura. Ma ieri, anche se anni luce lontana dall'attuale complessità estetica, è stata comunque la scatola che ha soddisfatto il nostro bisogno di epica, la somma delle nostre speranze e il modello del nostro diventare adulti. E, molto, lo dobbiamo alla regina indiscussa della nostra infanzia, Cristina D'Avena.

Per noi è la ragazzina che, sul finire degli anni '80, interpretò il telefilm basato sul cartone animato Kiss me Licia. Un po' ne eravamo innamorati, e la volevamo come fidanzatina. Un po' era la voce della nostra coscienza, il nostro grillo parlante, la fata madrina che cantava gli inni dei nostri eroi. Ogni epoca ha i suoi. Le storie che affascinavano i bambini dell'antichità, narrate da aedi, inconsapevoli propagatori della cultura letteraria mondiale, che per i nostri nonni e nostri padri venivano raccontate attraverso le prime strisce a fumetti dei quotidiani e le clip di Carosello, le hanno interpretate per noi i protagonisti d'animazione trasmessi nei magici pomeriggi della nostra infanzia. Introdotti sempre, immancabilmente, dalla rassicurante, squillante e profumata voce di Cristina D'Avena.

Il cofanetto 30 e poi, parte I e parte II, prodotto da RTI Music Division e distribuito da Sony Music, che ne festeggia il compleanno lavorativo, racchiude gran parte di quei memorabilia televisivi, sotto forma di filmati d'epoca, versioni audio inedite e fotografie. Un bel regalo, magari per i figli in arrivo, per quelli degli amici, o per i nipotini. Un modo per trasmettere loro, almeno in parte, un po' di quell'aria trionfale che si respirava nei nostri anni d'oro. Il bello è che si tratta di uno di quei regali egoistici, fatti ai bambini per la gioia degli adulti. Ed è un regalo che ci siamo in parte già fatti tante volte, curiosando su YouTube, passando di video in video, o in quelle serate fra amici in cui, con un bicchiere di troppo, si finisce sempre a cantare. E, tra una Canzone del sole e un Pescatore, difficile non affiorino le vecchie sigle dei cartoni.

Te lo ricordi come faceva la sigla di Pollon? Tra una storpiatura e un pausa/litigio per la classifica dei più belli di sempre («come fai a preferire Occhi di gatto a Holly e Benji!» «Io dico È quasi magia, Johnny» «Ma cosa dite, vuoi mettere con Robin Hood») si ricantano i grandi classici, Mila e Shiro, Dolce Candy, Ti voglio bene Denver, Magica Emi, ci si avventura con qualche imbarazzo in serie vissute al limite dell'adolescenza, come L'ispettore Gadget e Sailor Moon, il Conte Dracula e Brividi e polvere con Pelleossa, in quelle educative che ci hanno dato un'idea della nostra fisiologia, come Siamo fatti così.

Esplorando il corpo umano e dell'assurdità di ogni discriminazione come Fiocchi di cotone per Jeanie, nelle grandi rivisitazioni letterarie come Il libro della giungla e D'Artagnan e i moschettieri del re (in cui misteriosamente Aramis era una donna) per arrivare, specie dal punto vista delle sigle in sé, ad autentici capolavori come l'eroina reazionaria Lady Oscar e il suo contraltare rivoluzionario, Il tulipano Nero (che si permetteva il lusso di sbagliare la data della rivoluzione accorpandola al 4 luglio), l'esotica I Gemelli nel segno del destino, ambientata nelle suggestive città di Shangai e Marsiglia, l'epica cavalleresca di Prince Valiant, indomito cavaliere alla corte di Re Artù o l'affascinante, struggente e selvatica Nadia che ci accompagnava a scoprire Il mistero della pietra azzurra. Basta elencare le sigle, sostituirle, cantarle, anche nella nostra testa, per compiere un viaggio nel tempo e lasciarsi ferire, un po' masochisticamente, dal fuoco amico dei ricordi.

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