Addio a Lucia Mannucci la D’Artagnan dei Cetra

Addio a Lucia Mannucci la D’Artagnan dei Cetra

] Se n’é andata alla vigilia dei novantadue anni, senza far rumore (senza funerale ma con una cerimonia laica) così come aveva vissuto la sua lunga vita e un’inimitabile carriera, Lucia Mannucci, la signora del Quartetto Cetra. Signora, la parola giusta. Non solo perché di quel complesso, o di quella band, come si direbbe oggi, ma lei non l’avrebbe detto mai, era stata l’unica donna. Un quartetto che, tra gli anni Quaranta e i Settanta raggiunse una popolarità impensabile, alla radio e in teatro, poi naturalmente in tv e perfino al cinema. E dire che i Cetra, nel 1940, nacquero senza di lei. Anzi, a dirla tutta anche senza Virgilio Savona e Felice Chiusano. Nella primissima formazione che prese il nome di Quartetto Egie poi di Quartetto Ritmo dei soci storici c’era solo un ventenne romano di ottimo aspetto, Giovanni (Tata) Giacobetti. Che divideva la scena con il coetaneo e concittadino Enrico De Agelis e due meteore, destinate dunque a uscire presto di scena. Sostituite appunto dal palermitano Savona e dal laziale Chiusano. Nel ’47 se ne andò anche De Angelis, per fare l’imprenditore, ed entrò nel gruppo la vispa bolognese Lucia Mannucci, che nel frattempo, era il 1944, aveva sposato Savona.
Finiti i cambi, i Cetra, che si erano chiamati come la loro casa discografica, restarono uniti per sempre, nell’identica formazione. E scusate, se quarantun’ anni vi sembrano pochi. Già, quarantun’anni, fino alla scomparsa, nel 1988, di Giacobetti. Un grandissimo successo l’ottennero alla radio, con la trasmissione Giringiro, un varietà messo in piedi lì per lì ad ogni sede di tappa del Giro d’Italia, a quei tempi, erano i primi anni Cinquanta, lo sport più amato grazie anche alla rivalità Coppi-Bartali. Intrattenimento musicale, garbo e ironia, una ricetta che resterà per sempre il loro marchio di fabbrica. E sempre alla radio, nel ’54, parteciparono al quarto Festival di Sanremo, accompagnando sei esecuzioni e dividendo il sesto posto della spiritosa Aveva un bavero con Vittoria Mongardi e il Duo Fasano. Ormai erano lanciatissimi. In teatro avevano debuttato nel ’51 con la rivista Gran baldoria di Giovannini&Garinei, sull’onda della popolarità raggiunta con una canzone di Nat King Cole, Old McDonald Had a Farm, liberamente e mirabilmente tradotta: Nella vecchia fattoria, che probabilmente rimarrà il loro pezzo più famoso.
Duttili e multiformi, non si facevano mancare niente, tanto da passare anche in sala di doppiaggio per dare voce ai perfidi corvi che prendevano per il nasone il povero elefantino Dumbo, nel cartone omonimo del ’49, incapace di prendere il volo. È agli archivi la lettera di congratulazioni di Walt Disney. Furono un migliaio le canzoni incise dai Cetra, quasi tutte scritte dal tandem Giacobetti-Savona. Sempre allegre, dense d’ironia, senza una parola fuori posto. Insomma senza mai una parolaccia. Allora non si usava: era vietato dalla censura e, prima ancora, dal buon gusto. Lucia Mannucci tra quei tre compagni eleganti e beffardi, sembrava un D’Artagnan al femminile, pronta a dare la stoccata finale. Come nell’irresistibile brano gonfio di umorismo nero Però mi vuole bene, in cui a una candida innamorata sembrano fortuiti incidenti di percorso i molteplici tentativi del marito per farla fuori. Una vera delizia, forse, perfino per gli appassionati del Grande Fratello. E tra le tantissime si ricordano Che centrattacco!, Un disco dei Platters, Vecchia America, Un bacio a mezzanotte e naturalmente In un palco della Scala, dove la Mannucci, in raffinato costume ottocentesco, accompagnandosi con un ventaglio d’epoca, racconta di «signore in décolleté discese da un romantico coupé». Davvero altri tempi.
In teatro avevano sfondato grazie al fiuto dell’impresario Remigio Paone, che al Nuovo di Milano, li volle in cartellone a dar lustro alle compagnie più illustri, prima della lunghissima lista, quella di Wanda Osiris. Ma il boom più fragoroso i Cetra, che dopo vent’anni erano passati alla Ricordi, lo ebbero in tv. Con una miriade di programmi raffinatissimi, l’esatto contrario di quelli odierni, a cominciare dall’irripetibile Studio Uno, ma soprattutto con Biblioteca di Studio Uno. Dove, al fianco dei più popolari divi del teatro, che facevano a gara per partecipare, avevano inventato le parodie della grande letteratura.

Da I tre moschettieri al Conte di Montecristo a I promessi sposi. Che spasso e che classe.
Gli autori di oggi avrebbero tutto da imparare. Ma non li guarderanno mai. Come ci si può divertire senza neppure un «vaf», vero Signora Lucia?

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