Addio a Valentino Zeichen Amava Fiume e Roma, la sua patria era la poesia

Profugo istriano, giunse bambino nella Capitale e divenne un artista. Ma anche una leggenda

Addio a Valentino Zeichen Amava Fiume e Roma, la sua patria era la poesia

Il Comandante, come per scherzo e provocazione lo chiamavo, non è caduto in battaglia per riconquistare Fiume: è volato via a Est, cancellando ai più il suo vero nome e cognome; lasciandoci in compenso, però, una delle ultime leggende della letteratura italiana contemporanea. È morto Valentino Zeichen. Nato appunto a Fiume nel 1938.

Giunto a Roma da ragazzino, di Fiume, cosa che non voleva rivelare per estremo pudore e strazio, non è vero che non si era portato dietro niente, che aveva dimenticato ogni cosa (dicendo: "Quando la guerra si perde tutto è perduto!"). Da Fiume e dall'Istria si era tenuta gelosamente segreta la luce bianca, quella luce di visione. Quella luce che ho sempre amato apostrofare "dama cicatrizzata".

Questa visione, mai appannata, l'aveva trapiantata nella mappa urbana di Roma che, dal borghetto Flaminio, e su tra i bianchi marmi di Valle Giulia, dove da sempre viveva in una baracca (questa sì che resterà una delle grandi opere d'arte povera mai congegnate da artista, nonché porzione di Patria trasmigrata in Patria Roma adottiva) si estendeva all'intera città attraversata in largo e in lungo sempre a piedi da Zeichen. Me lo ricordo io ragazzo con i pantaloni di prussia tenuti dallo spago, e poi le raccomandazioni per le scarpe da ungere con la sugna, e mangiare molto aglio... e le sue provocazioni in pubblico. Ecco, Valentino Zeichen, dopo gli scrittori della generazione di Malaparte, e magari fino ai nati negli anni Venti del secolo scorso, resterà uno degli ultimi scrittori e poeti (il suo unico romanzo è La sumera; le poesie, dal 1963 al 2014, mettono insieme titoli implacabili: Area di rigore, Ricreazione, Pagine di gloria, Museo interiore, Gibilterra) che hanno costruito una vera storia esistenziale: leggendaria. Zeichen, come Landolfi, rimarrà Il Poeta. Non ha fatto altro. Non ha venduto, non ha comprato. Ha molto conversato (teneva a precisare che la conversazione migliore è quella frivola). Ha preteso di rimanere fedele alla sua passione, senza inchini. E alla giovinezza. Sempre la giovinezza. Magari sublimata in Anna Karina di Godard. O nelle gesta de I ragazzi della via Pal.

Valentino Zeichen non si è mai ammalato, mai piagnucoloso, mai remissivo. A un certo punto gli è arrivato un colpo da ko e l'ha incassato. In questi ultimi mesi, dall'ictus, aveva recuperato la parola ma non il movimento degli arti destri. Lui che dall'Est si era portato la luce, aveva anche nel Dna le tracce della disciplina. Alberto Moravia scrisse: "Poeta neomarziale". La sua poesia pareva accostarsi alla neoavanguardia. Invece esattezza, causticità, paradosso in Zeichen non sono gesti linguistici bensì prove di trapianto: macchine di vita che saldano luci di patrie diverse.

Valentino non amava parlare e raccontare della sua "prima vita", della sua "prima Patria". Però leggetelo e quell'infanzia con il volto di madre emergerà sorprendente, mettendo a soqquadro calchi e ruderi imperiali: "Il volto stampato su seni/ mani succhiate da piedi/ teste al posto di cuori/ bocche forse di visi/ con crostacei velenosi/ avvolti in seta verde".

Da ultimo gli dicevo che poteva essermi padre. Gli intimavo di ricordarselo. Scherzavo. Eppure gli notavo crescere il pudore. L'ho conosciuto che ero un ragazzo innamorato perso della poesia. E comunque ci siamo trattati sempre alla pari. Anzi, in me trovava lo sfidante per le provocazioni. Era uno spasso. Erano consentiti tutti i colpi, anche al limite della cintura. A una presentazione del 2011, di un mio romanzo sulla storia di un Patriarca, dal fondo della sala mi disse a voce alta: "Parli tanto di patriarchi ma tu non ti sei riprodotto". Quella volta fui io a fregarlo. Avevo le analisi in tasca dei miei spermatozoi "combattivi". Fu una serata memorabile.

La sera prima di essere colto da ictus andammo a cena insieme per il compleanno di un amico comune carissimo, Antonio Gnoli. Recitammo una poesia per lui. Fu un abbraccio magnifico. Non volevo andare. Poi mi dissero: "Non puoi tradire", allora mi gettai senza badare ai controlli sulla Pontinia mentre chiamavo Valentino per comunicargli che dopo mezz'ora ero già all'Eur, e dopo quaranta minuti al Circo Massimo. Valentino non ci credeva, eppure era così. Ridevamo che sapessi infrangere ogni record.

Zeichen non è stato un uomo di compromessi. Ha vissuto da poeta povero, e dunque da gran signore (come Amelia Rosselli consigliava di vivere agli artisti). Amava studiare e discutere di storia, però sapeva che si trattava di una farsa. Erano preferibili leggenda e vita.

Preferenze che garantiscono libertà e ribellione al conformismo.

Sì, la vita, "questa cosa macera" come scrisse Truman Capote per la morte di Marilyn. Addio Valentino. Scusami, ma agli amici si dice addio perché non potremo dimenticarli con un arrivederci.

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