Due mezze patate in bocca e fu subito Il Padrino. Ma quello era Marlon Brando, l'attore inarrivabile che non aveva bisogno di aiutini. Era lui la maschera, lui il volto. Per sembrare qualcuno, non gli occorrevano ore e ore di trucco prostetico, sotto le mani dei maghi del silicone. Un'icona fatta e finita da Madre Natura. Bastava che apparisse imbronciato sotto a un berretto e sopra una t-shirt e l'aura erotica gli si disponeva intorno.
E ha funzionato così anche per gli altri ultimi grandi del cinema, da Bob De Niro a Al Pacino, fino a Marcello Mastroianni, che per il ruolo del radiofonico gay, nel film di Scola Una giornata particolare, si limitò a schiarire i capelli con un tono di castano più caldo. Parlavano la sua mimesi, le mosse, l'intero suo corpo e, fosse vivo oggi, da buon ciociaro pigro e scafatissimo, riderebbe del trucco prostetico, dei calchi di gesso e dell'ambaradam cosmetico avanzato che, assieme a una certa bravura, ha fruttato l'Orso d'argento a Elio Germano, al FilmFest di Berlino. Dove l'attore ha trionfato calandosi nella difformità plasticea del pittore Ligabue nel film di Giorgio Diritti Volevo nascondermi: orecchione a sventola, guancione contadinesche, zigomi da tartaro. Lunghe sessioni di trucco con l'équipe che aveva già lavorato con Pierfrancesco Favino per il ruolo di Buscetta, ne Il traditore, capitanata da Lorenzo Tamburini (David di Donatello per Dogman). Ma è Germano che fa Ligabue, o è il silicone che indossa, a renderlo così simile all'artista mattocchio? «Quel genio di Flavio Bucci fece Ligabue con niente: solo sguardo, tensione e movimento», osserva il veterano Giancarlo Giannini, commentando l'attuale tendenza a forzare i propri connotati per colpire gli spettatori. Per il non dimenticabile interprete di Mimì metallurgico l'utilizzo eccessivo del trucco rimanda al televisivo Tale e Quale Show.
Lo stesso discorso vale per Pierfrancesco Favino, che resta un interprete di vaglia, nonostante (e forse proprio per) le impressionanti trasformazioni cui si è sottoposto, incarnando il pentito di mafia Buscetta, diretto da Bellocchio ne Il traditore e poi Bettino Craxi, diretto da Amelio in Hammamet. «Qui il trucco durava cinque ore al giorno, ma lo vivevo come il tipico rituale del teatro No giapponese: grazie al trucco superavo il ponte verso l'oblio di sé», spiega Favino, che nel ruolo del leader socialista ha stregato pubblico e critica: più vero del vero, anche grazie agli artisti prostetici. Come il saronnese Andrea Laenza, che in Tunisia si svegliava all'alba, per provare sul viso di Favino il volto di Craxi da lui creato. Mani sudate, colore ovunque, camici sporchi, ma molta soddisfazione.
E sono sempre di più i truccatori professionisti che sfruttano gli effetti digitali e si organizzano nella «Prosthetic Renaissance», compagnia in cui operano i migliori artisti del settore e che lavorano per HBO, Warner, 20Th Century Fox, Disney, Paramount, Scorsese. Quest'ultimo ha alzato l'asticella con The Irishman, pretendendo il ringiovanimento digitale dei suoi attori-feticcio De Niro e Pacino e spillando ai produttori 160 milioni di dollari per l'operazione autoriale. «Nulla è vero, tutto è permesso», scriveva Joseph von Hammer-Purgstall nella Geschichte der Assassinen (Storia degli assassini), opera che colpì profondamente Friedrich Nietzsche. E se adesso tutto è protesi, dal cellulare al computer, non è dato stupirsi di visi e corpi rifatti, composti più da plastica che da carne. Gli attori, però, che secondo Mario Monicelli per esser bravi non devono sembrarlo, vivono nel mondo parallelo della chirurgia plastica, approfittando a mani basse del silicone al platino medico. Materiale usato negli interventi al seno: è dalla medicina che proviene l'uso delle protesi. L'attore è malato e necessita di interventi simil-chirurgici? «Per creare effetti dentro la storia, che sembrino naturali e reali, la prostetica da film è fondamentale», dice Matteo Garrone, che per realizzare il suo Pinocchio ha insistito sul make-up in 3D.
A tali mezzi, che negli USA hanno rango da categoria Oscar, ricorre anche Paolo Sorrentino, che creò un Giulio Andreotti-Topo Gigio, dotando Toni Servillo di enormi padiglioni auricolari ne Il Divo. Forse gli attori sentono l'inconsistenza di quanto li circonda e vogliono personalizzarla con la plastica.
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