Mattia Rossi
Milano, Piazzale Loreto, 29 aprile '45: i corpi di Benito Mussolini e Claretta Petacci penzolano a testa in giù consegnati barbaramente al pubblico disprezzo in quella che Ferruccio Parri definì «macelleria messicana». Ed è proprio in quel giorno che Enrico Groppali, critico teatrale del Giornale, ha imperniato il suo romanzo Piazzale Loreto (Mondadori, pagg. 156, euro 20). Palcoscenico della vicenda è una palazzina di Via degli Olivetani, a Milano, un desolante «edificio smangiato dalle pantegane». Qui prendono vita i vertiginosi soliloqui dei due protagonisti: una donna caduta in disgrazia ma che finge «di essere un'Estasi» e un depravato macellaio assetato di bambine con un passato a «correre dietro a quelle seduttrici del futuro». Tra i due, un muro. Il muro che separa i due appartamenti, un muro che non è di mattoni, ma diventa quasi il terzo protagonista, muto spettatore del lento riemergere di cupi fantasmi. Piazzale Loreto è un romanzo onirico: le deliranti confessioni dell'uomo e della donna, entrambi testimoni della parabola fascista, si alternano in monologhi di orrore. Scene livide e crude che Groppali tratteggia con una lingua che è musica tanto è ammaliante. Un esempio?: «Un pensiero che mi ha attraversato la mente come una folgorazione.
Prima di svanire nel buio che circonda uomini e cose quando sul far dell'alba il sole ha paura di misurarsi con gli ultimi spasimi della notte. O come accade, verso sera, sul Lambro, quando le prode color ruggine diventano di rame e d'arancio. E il tramonto che incendia l'erba sembra un boia che versi sulla terra il sangue delle sue vittime».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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