Anche Puccini era un "hater"

Un volume raccoglie lettere e commenti pieni di livore per i colleghi

Anche Puccini era un "hater"

Che Giacomo Puccini avesse un bel caratterino, già si sapeva. Leggete, per esempio, cosa scrisse in una lettera molto poco accomodante a Giuseppe Adami, suo librettista per La rondine, Il tabarro e Turandot: «I libretti si fanno così. Rifacendoli. Finché non raggiungeremo quella forma definitiva che è necessaria a me per la musica, non le darò tregua. Devono essere, fase per fase, studiati, vagliati, approfonditi, secondo il desiderio mio e le mie personali esigenze».

Ma come era, Puccini, con i colleghi compositori? È questo inedito aspetto del lucchese ad essere indagato, tra gli altri, nel nuovo volume di Studi Pucciniani (Olschki, pagg. 288, euro 30): acido, talvolta supponente, sempre scontento, ipercritico con (quasi) tutti. Verso i suoi contemporanei, come ben scrive Marco Beghelli, Puccini manifestò sempre un'«insoddisfazione generale» e un «risentito scetticismo» senza risparmiare critiche al vetriolo. Tra i bersagli prediletti, Pietro Mascagni e Ruggero Leoncavallo. Di entrambi, Puccini si divertiva a storpiarne bambinescamente il nome: «Mascagnano», il primo; «Leonasino» o «Leonbestia», il secondo. L'autore di Cavalleria rusticana, dal canto suo, si sentiva letteralmente perseguitato da Puccini: «Scrissi l'Iris e mi ritrovai fra i piedi un'altra giapponesina. Feci volare Lodoletta e vidi per aria un altro uccello. Non posso più credere che si tratti di combinazione e di caso fortuito». Con Leoncavallo, invece, Puccini prese di mira la musica: «Si dice che mi sono abbassato a far l'operetta come Leoncavallo!! Questo mai e poi mai poi come lui! Non mi riuscirebbe neppure a farlo apposta».

Se Mascagni e Leoncavallo furono i più attenzionati, Puccini non fece mancare pesanti stilettate anche verso molti altri colleghi. È il caso, ad esempio, di Francesco Cilea: definì la sua Gloria «fardellume di vecchiezze rancide». Puccini fu impegnato anche come menagramo nei confronti del Nerone di Arrigo Boito, «il più gran bluff del nostro secolo!» lo definì: il risultato della strategia pucciniana fu che Toscanini gli impedì l'accesso alla prova generale. Non eccelse in simpatia nemmeno nei confronti di Ildebrando Pizzetti gioendo spudoratamente del fallimento della sua Dèbora e Jaéle: «Tutti questi aspiranti soccombono meglio così per gli orecchi umani e per i poveri sonatori d'orchestra». Lapidario con Giulietta e Romeo di Zandonai: «Disastro! Arabeschi d'orchestra e urli sulla scena niente cuore niente emozioni».

Se con i colleghi italiani la rivalità era comprensibile, Puccini non lesinò fiele anche per i colleghi d'oltralpe (per inciso: da segnalare, nel volume, anche il capitolo sulla positiva ricezione della musica pucciniana presso il circolo viennese che faceva capo ad Arnold Schönberg e alla dodecafonia). Stravinskij, ad esempio: il suo Sacre du printemps? «Coreografia ridicola. La musica una cacofonia all'estremo, roba da matti».

Nel mirino anche Richard Strauss: sia come compositore («Un orrore» la sua Elettra) che come direttore d'orchestra («Sarà arrivato Strauss con la Filarmonica: peccato che sia diretta da lui»). Assai poco entusiasta, Puccini, pure per Claude Debussy tanto che del Pelléas et Mélisande sottolineò la tiepidezza: «Mai ti trasporta uniforme come un abito di francescano».

L'insoddisfazione del maestro lucchese verso la musica a lui coeva fu, praticamente, costante.

Il suo ideale estetico, del resto, lo aveva espressamente esposto al suo librettista Luigi Illica con una similitudine in versi a luci rosse: «La Musica sincera/ anche se non è grande/ tiene di sotto un glande/ sodo come l'acciar».

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