Dal Bangladesh all'ecologia un fallimento dopo l'altro

Le cause perse del rock. Il primo fu Harrison: bancarotta per aiutare l'Asia. L'autogol di Jovanotti. Le banalità dei Måneskin

Dal Bangladesh all'ecologia un fallimento dopo l'altro

«Il pezzo che sto per suonarvi si intitola Masters of war. Appartiene alla mia cosiddetta fase di protesta. Sono tuttora in quella fase.»

A dichiararlo, dai solchi di un bootleg degli anni Ottanta, è Bob Dylan, il cantante impegnato per eccellenza per lo meno nell'iconografia ufficiale del rock che ha abbracciato la canzone politica, figlia della tradizione popolare, diventando un'icona incontrastata dei due mondi contrapposti del pop e del folk, per poi discostarsene. E dire che le canzoni che per prime gli hanno guadagnato stima e fama planetarie sono di contenuto apertamente politico, come A hard rain's a-gonna fall, With God on our side, It's alright ma, I'm only bleeding e la stessa Blowin' in the wind.

Facciamo avanzare velocemente il nastro del tempo e approdiamo sul palco del festival di Coachella, in California, nello scorso aprile, con il cantante dei Måneskin che urla a un pubblico delirante e non particolarmente articolato, «Free Ukraine, fuck Putin!». Uno slogan degno dell'epoca d'oro del rock barricadero, proprio quello da cui Dylan, il vate della canzone di protesta, ha progressivamente preso le distanze.

Di motti piacioni e di maniera davvero non si sentiva la mancanza. Ma perché, allora, la storia del rock è costellata di slanci contestatari e, soprattutto, di aneliti filantropici? Perché l'uomo è libero di dire ciò che vuole. Perché una presa di posizione su tematiche scottanti da parte di artisti maturi è considerata doverosa. Perché va di moda e piace. Tutte spiegazioni accettabili. Ma c'è pure qualcosa di più profondo, qualcosa che attiene alla missione stessa della canzone e affonda le radici nella tradizione del racconto orale, prima, e della denuncia sociale, dopo, con la forza iconoclasta del teatro antico e l'avvento dei primi trovatori. In fondo, lo stesso Bob Dylan si è fatto conoscere travestendosi da folksinger: abbigliamento casual, acquistato presumibilmente in un emporio di abiti di seconda mano, una chitarra rigorosamente acustica, la propensione a cantare brani dalla melodia semplicissima spesso entrati nel bagaglio culturale collettivo degli USA e dal testo che ricostruisce un fatto di cronaca o affronta una materia spinosa, schierandosi dalla parte dei più deboli. Ma, è risaputo, ogni ostentazione e riproposizione rischia di sapere di stantio e per attenuare la forza di una creazione. Bob Dylan lo ha capito benissimo e ha abbracciato chitarra elettrica, giacca di pelle e atteggiamento da rocker nel corso del Newport Folk Festival del 1965, finendo per stizzire il suo patrigno musicale nonché direttore del festival, Pete Seeger, e pure quel pubblico di beatnik già fuori tempo massimo: solo una chitarra acustica e una canzone di denuncia erano ritenuti degni di quel palcoscenico. Presto, quella gente si sarebbe resa conto, suo malgrado, che così non era e che una splendida canzone d'amore, impegnata emotivamente più che politicamente, poteva avere la stessa forza dirompente di una filippica in musica.

Facciamo nuovamente un salto in avanti e veniamo alla polemica di pochi giorni fa, sull'onda delle accuse mosse a Jovanotti dal mondo ambientalista. Il cantante toscano sarebbe reo di ipocrisia e comportamenti contrari al decoro ecologico. Il suo Jova Beach Party, promosso come una sorta di primo grande evento musicale a impatto zero (o quasi) sull'ecosistema e sull'ambiente, in realtà non sarebbe stato virtuoso quanto l'entourage del cantante vorrebbe far credere. Inutile tornare sulla montagna di rifiuti abbandonati sulla spiaggia, sul muro assordante di decibel o sulle presunte offese irreparabili a qualche specie animale. Se certi atteggiamenti del movimento ambientalista rischiano di risultare sconnessi dalla modernità, la sensazione è che aver ammantato quei concerti di una patina di irreprensibilità etica per renderli ancor più appetibili sia stato un perfetto autogol. Davvero le associazioni animaliste e ambientaliste sarebbero insorte con la stessa veemenza se Jovanotti non si fosse spacciato per paladino della loro causa, arrivando persino a minimizzare il fatto che tra gli sponsor primari del tour estivo ci fosse un produttore di carni? Carni, sì, ma rigorosamente biologiche, la difesa d'ufficio.

Attivismo politico e filantropia affascinano il mondo del rock da tanto tempo, quasi che esserne protagonisti possa sdoganarne la grandezza artistica più della stessa musica. Il primo vero anelito di generosità pop lo si deve a George Harrison, organizzatore dei due concerti, finanziariamente fallimentari, per il Bangladesh, precursore del Live Aid (voluto da Bob Geldof) e del Farm Aid (suggerito da Dylan per dare una mano ai contadini del Midwest, strangolati dalle ipoteche, e tradotto in realtà da John Mellencamp, Willie Nelson e Neil Young). Stendiamo un velo pietoso sui backstage debosciati. In mezzo c'è stata la levata di scudi del brano Sun City di Little Steven, con la partecipazione di uno stuolo di nomi altisonanti, contro le band che si esibivano in Sudafrica (tra cui i Queen).

C'è chi rivendica ogni volta il suo ostracismo o la sua militanza.

L'ex Pink Floyd Roger Waters è sempre in prima fila: antimilitarista convinto, si rifiuta di suonare in Israele, dice di comprendere le ragioni della Russia e, giusto pochi giorni fa, ha fatto proiettare lo slogan «Free Julian Assange» sul maxischermo, durante un suo concerto. Nel frattempo gli altri Pink Floyd hanno inciso un brano per l'Ucraina...

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