Da Bernardo Gui a Dolcino e alle torture Nel «Nome della rosa» tante spine storiche

L'inquisitore era un moderato, l'eretico un violento. E le streghe non c'entrano

Da Bernardo Gui a Dolcino e alle torture Nel «Nome della rosa» tante spine storiche

Il crollo verticale degli ascolti subito dopo la prima puntata vuol dire solo una cosa: il pubblico si è annoiato della serie tv Il nome della rosa. Come chi, per dovere d'ufficio, ha dovuto sorbirsi le altre tre. Una per tutte: la monoespressività del protagonista, John Turturro, per ben 8 ore. Visto che figura come co-autore della sceneggiatura e come co-produttore esecutivo, poteva metterci qualcuna delle facce che, in film precedenti, lo hanno reso famoso. Vabbe', almeno gli altri, tutti gli altri, si sono egregiamente impegnati. Primo fra tutti quel Rupert Everett che ha dimostrato di essere attore drammatico e non solo brillante. Peccato che abbia dovuto indossare i panni del cattivo, e che questi panni siano falsi non solo perché di scena. Bernardo Gui, infatti, fu in realtà un mite inquisitore. Per niente fanatico, anzi, è ricordato come uno dei più fini intellettuali del suo secolo: autore di un celebre manuale per inquisitori (in cui raccomandava la mano leggera), fu forse il massimo storico del suo tempo.

Nell'ultima puntata Everett-Gui manda a morte un monaco benedettino solo perché in precedenza era stato seguace dell'eretico frate Dolcino. Ora, l'Inquisizione mirava a far rientrare nei ranghi della Chiesa gli eretici, non a eliminarli. Dunque, un ex eretico che poi diventa monaco ortodosso non può essere giudicato solo perché in gioventù ha seguito l'eresia: se è stato ammesso nell'abbazia vuol dire che è stato perdonato sacramentalmente dal suo superiore. E l'Inquisizione a questo mirava: al pentimento. Su tale punto il difetto sta nel manico, perché l'errore storico è presente nel romanzo di Eco. Il quale «non poteva non sapere», ma ha puntato alla cassetta facendo un'opera gotica tipo Il pozzo e il pendolo di Edgar Allan Poe, tesa cioè a solleticare soprattutto il pubblico anglosassone (e ci ha azzeccato, visto il successo internazionale). Ma Umberto Eco non ha scritto che «penitentiagite» significa «fate penitenza e agite», come spiega Guglielmo di Baskerville nella fiction televisiva, bensì, correttamente, che sta solo per «fate penitenza». Nella finzione, e nel romanzo, diventa il motto di Dolcino, ma era solo un modo comune di dire, quasi un gioco di parole, nella predicazione medievale. Per tirarla lunga in quattro puntate di due ore l'una si è inventata una figlia di Dolcino e della «profetessa» Margherita che fa, inutilmente, l'angelo vendicatore. Pazienza, esigenze di copione. Ma far passare Dolcino e la sua banda di predoni per una sorta di Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri è fuorviante. Quelli ammazzavano e rubavano per affermare la loro eresia comunistica, come gli anabattisti di due secoli dopo.

L'inquisitore che vuol bruciare la «strega»? L'Inquisizione si occupava solo di eresia. E poi, senza processo? Ci volevano la giuria, i testimoni giurati, gli esperti, il notaio verbalizzante. E l'inquisito aveva sempre diritto all'appello. Insomma, una roba complicata e molto lunga. Invece in tivù troviamo la tortura applicata addirittura preventivamente, coi ferri roventi. L'unica tortura possibile erano i tratti di corda e, dopo, l'inquisito doveva confermare senza tortura, sennò la confessione estorta non era valida.

Con la presenza obbligatoria del vescovo e di un medico. Nei manuali per inquisitori era sconsigliata perché fallace: un «duro» non avrebbe confessato mai, mentre un pusillanime avrebbe confessato anche quel che non aveva commesso. E all'Inquisizione interessava la verità.

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