«E spero che tu muoia. E che la tua morte giunga presto. E seguirò il tuo feretro. Nella luce pallida del pomeriggio. E resterò a guardare mentre ti calano. Nel tuo giaciglio di morte. E mi fermerò accanto alla tua tomba. Finché non sarò certo che tu sia morto». Ne è passata d'acqua sotto i ponti da quel 1963, anno in cui fu incisa e pubblicata Masters of War sull'album The Freewheelin' Bob Dylan. Era l'anno in cui i favolosi Beatles ancora cantavano «Love me do, you know I love you». Incredibile pensare che, sul lato opposto dell'Atlantico, un altro musicista che con i quattro di Liverpool condivideva la passione per Little Richard ed Elvis, non cantasse di amore e gioia post-adolescenziali ma di morte e rabbia vendicativa. Se mai ce ne fosse stato bisogno, quelle parole, soprattutto gli ultimi due versi della strofa finale di quel brano, me le ha ricordate qualche giorno fa un amico, lagnandosi della stagnazione snervante della nostra politica. Strano pensare che un Dylan quasi imberbe abbia accumulato tutto quel veleno che, senza apparenti antidoti, si insinua tra i solchi di una canzone scritta ancora giovanissimo. Ma anche in questo stanno la grandezza e la complessità del primo premio Nobel nella storia del rock, un artista su cui il mondo accademico ha speso più parole che su qualsiasi altro esponente di ogni forma d'arte della contemporaneità.
Perché Bob Dylan (Edt, traduzione di Elena Cantoni e Paolo Giovanazzi, pagg. 298, euro 20) di Richard F. Thomas si annuncia come un testo di stampo quasi universitario. Quel quasi lo si deve al rock'n'roll, non uso a toghe e frac. Thomas, docente a Harvard, ha masticato per una vita poeti latini e greci e canzoni di Bob Dylan, a suo parere appartenente «al novero dei poeti antichi». A suo dire, fin dagli esordi, «Dylan ha operato in base a principi artistici e con un atteggiamento rispetto alla composizione, alla revisione e all'interpretazione molto simili a quelli degli antichi». Peraltro, gli anni Sessanta sono stati negli Usa un periodo di instabilità politica che ha regalato al Paese una fioritura artistica senza precedenti, un po' come l'Atene del V secolo e l'Inghilterra elisabettiana.
Ecco che Thomas ci suggerisce una interessante chiave di lettura del pensiero dylaniano: Dylan va studiato come un classico perché di classicismo si nutre, da lettore avido quale è sempre stato, alternandosi tra le pagine della Bibbia, dei classici, dei poeti beat, dei poeti maledetti. Insomma, a giudicare dalle tematiche affrontate nei suoi testi amore, tradimento, morte, guerra, salvezza, Dio, natura l'antica Grecia e l'antica Roma non sono lontane. In fondo, come sottolinea più volte Thomas, è la curiosità ad alimentare uno spirito creativo e di Dylan si può dire tutto e il contrario di tutto e in parecchi lo hanno pure fatto ma non certo che gli manchi la brama di conoscere e analizzare.
Se i critici latini ripetevano il mantra, «L'arte della poesia consiste nel non dire tutto», allora Dylan ne è un diretto discendente: pochi come lui sono maestri nell'eloquente arte della riserva e pure della parsimonia, persino nei testi torrenziali a cui spesso ha fatto ricorso. E la capacità di essere calato nel proprio tempo e pure di esprimere un'arte indifferente al suo incedere è un'autentica virtù dei maestri. Thomas ce lo ricorda analizzando, per esempio, proprio Masters of War, probabilmente pensata in polemica con l'impegno militare americano in Vietnam e sfruttabile durante la Guerra del Golfo ma, per questo, accantonata dallo stesso Dylan.
Sulla medaglia del premio Nobel sono incise le parole di Virgilio: «Gli inventori delle arti adatte a ingentilire la vita». Dylan non sfigurerebbe accanto a Virgilio e a Dante in un nuovo viaggio nell'ignoto. In fondo, poesia e musica (in questo caso sfruttando la forma popolare e antica del blues, una sorta di aggiunta ideale all'olimpo del classicismo) servono per rendere più tollerabile l'intrinseca caducità umana. E Dylan ne è più che cosciente e, pur rigettando ogni investitura a sommo vate della sofferenza e della gioia, se ne inorgoglisce privatamente. Il suo lirismo, nell'attenta analisi di Richard F. Thomas, pesca a piene mani dal ricco patrimonio greco-romano: l'aggettivo «lirico» non a caso deriva da lyra, lo strumento a corde per eccellenza dei greci e dei romani. E, a giudicare dai testi di certe sue canzoni, Dylan pare aver fatto sua la lezione dei grandi poeti antichi. Per esempio, il brano Ain't Talkin' sembra aver saccheggiato alcuni versi di Ovidio.
Ma è Catullo, il poeta dei poeti di Roma, il cantore per eccellenza dell'amore perduto, a mostrare le più strette assonanze con i tormenti lirici di Dylan, il sommo cantore del rock'n'roll, un genere musicale che solo a chi è distratto risulta privo di lirismo.Perché Bob Dylan non è una biografia di Dylan, ma lo si può leggere anche se non si è stati folgorati sulla via di Hibbing, Minnesota, centro minerario da cui Dylan fuggì.
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