Caro vecchio Jep, da trentenne ti dico

La società non è in disfacimento. Si sta invece sgretolando una vecchia classe post sessantottina che non vuol mollare la presa

Caro vecchio Jep, da trentenne ti dico

Caro Jep,

un sapore amaro, che mischia il malinconico silenzio alla desolante sensazione di fine, mi rimane addosso (e fatica a lasciarmi) nell'assistere al tuo stanco addio a quella mondanità patinata, inebriata dai fumi dell'alcol e impreziosita da curve e lineamenti che, complice la notte, sembrano copertine più brillanti di quello che in realtà non splendono. Un sapore amaro con cui ho imparato a convivere perché quelli della tua generazione, sessantenni e settantenni, ci hanno sbattuto addosso da sempre, a noi trentenni.

La mondanità non è morta. È solo cambiata. Quella che è morta, semmai, è una certa Italia, quella post sessantottina dei salotti radical chic che ancora scalpitano per non mollare la presa. Lo fanno nei libri e nei film che celebrano questo decadente dissolversi nel nulla di miti, ideali e ideologia che oggi non esistono più. Lo fanno nelle feste caciarone e assordate, tanto egocentriche da farsi paparazzare da Dagospia, disegnando un lento, ma inesorabilmente disfacimento del bello. Lo fanno fagocitando ossigeno e spazi a una generazione ormai schiacciata tra vecchi scalpitanti e giovani sempre più combattivi. Una generazione, quella dei trentenni, che fatica a trovare un luogo in cui esprimersi.

La società non si sta dissolvendo, sta solo cambiando. Cambiano le musiche che i deejay suonano nei locali, come cambiano le mode, i ritmi, i drink, le droghe, i locali e, soprattutto, gli ideali per cui combattere. Ma la mondanità resta, non è in disfacimento. Perché la vita è un'immensa, faticosa festa che riconduce tutti quanti allo stesso punto: all'alba del giorno dopo. Ma perché a questo punto noi trentenni possiamo arrivarci, dobbiamo anche noi poterci sedere al banchetto della vita. A lungo siamo stati abbagliati dal passato. Ci raccontano che tutto è stato testato e digerito. Dall'impegno politico sessantottino al disimpegno della Milano da Bere, dal Miracolo italiano alla crisi finanziaria. Noi, figli della fine del Secolo Breve, abbiamo convissuto con il crepuscolo di una società che sembra dover tirare le cuoia, ma non vuole mai mollare: sta attaccata alla vita e ne succhia linfe vitali.

Francis Scott Fitzgerald, che di mondanità ne sapeva qualcosa, lodava di Gatsby quel suo credere "nella luce verde, nel futuro orgiastico che anno dopo anno si ritira davanti a noi". "Ieri c'è sfuggito, ma non importa – scriveva nel romanzo che meglio seppe descrivere i ritmi frenetici dell'età del jazz – domani correremo più forte, allungheremo di più le braccia ... e un bel mattino... Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato". Senza dimenticare il passato, dobbiamo vivere il presente. Ora. Non possiamo rimandare.

Caro Jep, tu dici: "Finisce sempre così: con la morte. Prima c'è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla... È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l'emozione e la paura. Gli sparuti, incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l'uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell'imbarazzo dello stare al mondo. Bla, bla, bla...

Altrove c'è l'Altrove. Io non mi occupo dell'Altrove". Io ti dico: l'Altrove è già qui, ora. Quanto per te è passato, per noi è presente. E, oggi come ieri, a seguire la Bellezza non si potrà che andare incontro al Vero.

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