Domanda dell'attrice Miriam Dalmazio posta ad una celebre legale: «Come devo chiamarla? Avvocato? Avvocata? Avvocatessa?». Risposta della legale: «Non me ne frega niente del sesso. L'unica cosa che conta è il ruolo». Non sappiamo chi sia l'intelligente signora (la Dalmazio ne tace il nome, «perché non so quanto le farebbe piacere lo rivelassi»), ma meriterebbe un applauso. In poche, asciutte parole, ha centrato il problema dell'overdose retorica che ormai avviluppa il - peraltro sacrosanto - tema della parità di genere. Magari, la serie Studio Battaglia trattasse il tema con altrettanto buonsenso: ma a giudicare dalle banalità retoriche che ne hanno corredato la presentazione alla stampa, il fondato timore è che la nuova fiction, dal 15 marzo su Raiuno in quattro serate, raccontando uno studio legale i cui avvocati sono tutte donne, e che si occupano prevalentemente di cause femminili, navighi nello stesso, scontato mare delle ovvietà di genere.
«Questa serie racconta cosa vuol dire essere professioniste affermate ma anche donne», attacca Luigi Mariniello della Rai. «Parla di donne in gamba, non solo nel lavoro ma anche nei sentimenti», gli fa eco il regista Simone Spada; «Ah, se invece degli uomini governassero le loro mogli!» esclama, implacabile, l'attore Thomas Trabacchi. Per poi concludere, con doverosa auto-punitività maschile: «Non sono così certo che noi maschi esistiamo ancora. Certo dovremmo inventarci un nuovo modo di essere maschi». Meno male che almeno Carla Signoris (interpreta una cliente dello studio) pare avere un soprassalto di ragionevolezza, quando candidamente nota: «In questa serie non c'è proprio della cattiveria nei confronti del maschio, ma insomma... Del resto è stata scritta da una donna». Quanto alla domanda delle domande - cosa conti di più: se il lavoro o la famiglia - Studio Battaglia non dà (ovviamente) risposte: «Ognuna di noi si fa questa domanda considera la Dalmazio - Ogni donna cerca la risposta per conto proprio. E poi prende quella che preferisce».
Prodotto da Palomar, ancora una volta tratto, come già i recenti Noi e Vostro onore, da una serie straniera di successo, l'inglese The split, e riscritto da Lisa Nur Sultan, Studio Battaglia viene definito un racconto «popolare e moderno» perché attraverso i suoi personaggi di varie età coinvolgerebbe l'immedesimazione di varie fasce di spettatori, e perché tratterà temi molto discussi e variamente affrontati dal diritto di famiglia: unioni civili, accordi di riservatezza, tutela dell'immagine, famiglie omogenitoriali, congelamento degli embrioni, uso dei social media, diffamazione, eredità digitale. Le quattro interpreti, nei panni di altrettante appartenenti alla famiglia Battaglia, tutte legali nell'omonimo studio, sono la madre Lunetta Savino, che l'ha fondato e lo guida con polso di ferro e tagliente ironia; la figlia Barbora Bobulova, che l'abbandona per uno studio concorrente, alla ricerca di una propria autonomia; le sorelle Miriam Dalmazio e Marina Occhionero, variamente divise fra impegni professionali e battaglie del sentimento. «Il mio è un personaggio piacevolmente scorretto racconta la Savino - Abbandonata dal marito, ha dovuto crescere da sola tre figlie femmine. E ora corrobora il proprio cinismo con un'ironia tagliente: riesce a difendersi e a ferire nello stesso momento. È un personaggio che mi rende felice perché ha mille sfaccettature, e si articola in modo tale da risultare estremamente convincente. Ruoli così il cinema non me ne ha mai offerti».
Convinta del personaggio anche la Bobulova, che ne approfitta per confrontarlo con i legali autentici (donne o uomini?) incontrati nella vita reale: «Ho sempre pensato che i bravi avvocati siano delle macchine da guerra, il cui unico obbiettivo sia quello di distruggere l'avversario.
Invece il mio personaggio è di tutt'altro genere; dimostra che ci sono anche bravi legali che lavorano alla luce del buonsenso, e a soluzioni pacifiche. Anche al di là dell'interesse del cliente. Del proprio stesso tornaconto. Almeno io spero che avvocati così esistano davvero».
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