Si calcola che il patrimonio culturale d'Italia valga 219 miliardi di euro fra beni mobili e immobili. Le sole Gallerie degli Uffizi, per dire, sfiorano i 2 miliardi. Un'eredità senza pari anche in termini di costi poiché esige investimenti continui. Lo Stato da solo non ce la fa, non rimane dunque che allearsi con il privato: cittadino, azienda o fondazione che sia. In una parola, cercasi mecenati, sponsor e soci, disperatamente e con garbo. Una cosa è certa: farci sentire nani al cospetto dei giganti anglosassoni, che notoriamente sono munifici donors per via di importanti incentivi fiscali, non aiuta ad abbracciare la causa. «Vorrei che arrivasse il momento in cui una impresa si vergogni se non destina una parte dei propri utili al patrimonio culturale del Paese», ha dichiarato giorni fa il ministro Dario Franceschini ricordando che dall'entrata in vigore dell'ArtBonus (2014), la misura fiscale a favore delle erogazioni liberali, sono stati donati 694 milioni di euro, «sono tanti, ma dovrebbero arrivare cifre ben superiori», il commento del ministro.
Dalla parte delle imprese Medaglia al petto alle imprese che sostengono la cultura con sponsorizzazioni, forme di partenariato vero e proprio e ArtBonus. «Arricchisce sul piano personale, ha un impatto positivo sia all'interno dell'azienda sia all'esterno, nel rapporto con le comunità e i territori», osserva Diana Bracco, storica mecenate. Ma da capitana d'azienda dell'omonimo Gruppo, sente di aggiungere che «però alle imprese devono essere offerte certezze sui tempi di realizzazione dei progetti e garanzie sull'impatto reale. Il segreto tra pubblico e privato è fare squadra, con trasparenza. Le aziende non possono essere trattate come dei bancomat, semmai vanno coinvolte nella stessa progettazione», chiarisce.
In tema di partenariato pubblico-privato Sentiamo Beppe Costa, della storica famiglia di Genova, Ad di Costa Edutainment e di OperaLaboratori, società quest'ultima attiva nella gestione di musei e annessi servizi, nel portfolio Uffizi, Pompei, Reggia di Caserta. Costa non ha dubbi: «Lo Stato dovrebbe fidarsi di più dei privati. In tema musei è stato fatto un passo indietro rispetto alla Legge Ronchey. Un esempio. Si fanno gare d'appalto centrate su qualche servizio, come se fossimo imprese di pulizia, sono poche le gare che vedono un coinvolgimento importante dell'operatore. Fate i bigliettai è un po' l'approccio - lamenta Costa -. Se vengono fatte gare per soli servizi, un privato che stimolo può avere ad incrementare visitatori e portare innovazione? Dovremmo poter ideare il prodotto da un punto di vista concettuale realizzandolo poi con nostre maestranze». Cosa riuscita, per esempio, a Montalcino con il Tempio del Brunello ricavato nell'ex-convento Sant'Agostino.
Dalla parte degli operatori culturali Che si tratti di partenariato, di erogazioni liberali o di sponsorizzazioni, c'è un problema di fondo. Se vuole portare acqua al proprio mulino, ergo finanziamenti al proprio ente, gli operatori culturali devono imparare a mettersi nelle scarpe altrui. Se si tratta di aziende, per esempio, «devono capirne i ragionamenti, presentare progetti, meglio se innovativi, illustrando l'impatto di comunicazione senza trascurare quello sociale: non paga chiedere l'obolo. Le aziende privilegiano interventi strategici di medio-lungo termine» spiega Francesco Moneta, promotore, tra l'altro, del Premio Cultura+Impresa. In breve, chi dona deve essere motivato a farlo. Se vivessimo nel migliore dei mondi possibili, quello descritto da Pangloss all'allievo Candide, allora potremmo aspirare a interventi per la cultura mossi da pura vocazione morale. Più realisticamente è auspicabile muovere ogni leva a disposizione.
Investire in cultura aumenta la reputazione Nell'ultimo quinquennio qualcosa è cambiato. Vi sono incentivi in più a sostenere il patrimonio culturale. Le aziende hanno compreso che il proprio impegno nella cultura rientra fra gli obiettivi di sostenibilità sintetizzati nell'acronimo ESG (E-ambientali, S-sociali. G-goverance), parametri che se non vengono onorati conducono dritti al declassamento dell'azienda. In tempi non sospetti l'allora presidente di Altagamma Andrea Illy, al timone della IllyCaffé, «raccomandava ai colleghi imprenditori di sostenere l'arte e la cultura non tanto perché operazione buona e giusta, ma soprattutto perché avrebbero guadagnato in competitività e valore reputazionale» (Moneta). Allora il suggerimento di un pioniere, oggi un imperativo.
A proposito di comunicazione persuasiva Paola Dubini, docente di Management alla Bocconi, spiega che «l'ArtBonus ha funzionato bene laddove è stata fatta opera di sensibilizzazione sul territorio. Il Comune di Perugia, per esempio, ha indicato chiaramente i beni d'arte bisognosi di restauro e ha incoraggiato i cittadini a fare la propria parte».
Se lo ami, lo sostieni Se conosci e ami il bene d'arte, allora vuoi che viva per l'eternità e lo sostieni. Eike Schmidt, direttore degli Uffizi, racconta che spesso riceve «offerte di fondi per restaurare la Venere di Botticelli, ma vorrei rassicurare che lei sta bene, è in perfetta salute. Ho però tante altre opere bisognose di aiuti», e fa una lista: è lunga. Parma per esempio ama il suo conterraneo Giuseppe Verdi, lo sente proprio, e cittadini e aziende contribuiscono al 25% del bilancio del Teatro emiliano. Così come Canossa si tien ben stretta la sua Matilde. Abbiamo sentito Marco Pizzoni, Ad di Way, azienda che crea viaggi nel tempo fra reale e virtuale narrando personaggi ed eventi storici per enti e città d'arte. Quando Way ha proposto il progetto dedicato a Matilde di Canossa, gli imprenditori si sono mossi staccando un assegno da 100mila euro.
«Non è stato facile - spiega Pizzoni - perché molti di loro in passato avevano sponsorizzato progetti che non erano andati oltre il taglio del nastro all'inaugurazione. Con dati e numeri alla mano abbiamo dimostrato che la gestione sarebbe stata nel lungo periodo». A quel punto, affare fatto. E chissà, in questo caso forse si temevano pure penitenze e notti all'addiaccio.
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