Io credo, non mi stanco di ripeterlo, che il vero bene che la letteratura può fare agli uomini sia di inseminare la testa degli scrittori con ciò che essi non sapevano di sapere, e permettere che i fantasmi così creati fecondino la società a sua insaputa.
Temo che il neoimpegno sia soltanto il sintomo di una mutazione genetica che sta proprio cambiando il rapporto con le parole: non c'è più il silenzio necessario per essere parlati (nell'antica letteratura orale, si invocava la Musa). Forse, penso quando mi sento giù, sono il custode cieco e un po' inebetito di uova di dinosauro ormai fossili. A causa della bizzarra e diffusa convinzione che in materia di arte (e in generale di cultura umanistica) si possa giudicare senza conoscere, sta finendo anche la critica come la intendo io, fatta di competenza tecnica e quindi elitaria; ora è tutto un party cerimonioso, madonna come sei bravo no no sei più bravo tu. In perfetto pendant con la presa padronale sulle parole, si assiste a una fuga nella letteratura come in psicanalisi si dice fuga nella guarigione: come se la letteratura fosse una merce e quel che interessa agli scrittori fosse soltanto ricevere la qualifica di produttori. Come se si scrivesse per esser chiamati scrittori e non per la passione di esporsi a un trauma. La scrittura engagée, così, rischia di diventare una specializzazione merceologica, come il fantasy o il self help; con tanti saluti al tremore che non può non afferrarci quando l'Angelo e il Diavolo si disputano l'animaccia nostra o l'anima della società.
Forse semplicemente sono obsoleto con la mia fiducia nella letteratura solo scritta. Ammetto di non essere particolarmente lucido quando si tratta di avere a che fare col Bene e col Male; nemmeno il nichilismo e l'adorazione del negativo, ovviamente, bastano a fare letteratura; ma pian piano, negli anni, ho stabilito con l'Avversario un sodalizio che mi avvelena e mi fa compagnia. Un lontano e insanabile senso di non appartenenza mi induce a una neutra e quasi compiaciuta contemplazione del disastro: sono sempre scettico nei confronti di chi agisce, costruisce, lotta, pur riconoscendolo migliore di me. Uso il fastidio verso la retorica come pretesto del mio disfattismo; so di essere vissuto in una bolla che mi ha preservato dalle ferite ma anche da una calda partecipazione alle emozioni comuni; mi sono riparato tra romanzi drammi e poesie senza illudermi che fossero il mondo (anzi, proprio perché non erano il mondo). Il canone dei miei classici forse dovrebbe risciacquare i panni nel fiume di una nuova letteratura mondiale e multimediale. Il «cattivismo» che mi sono spalmato in faccia non può essere scambiato per intelligenza.
Eppure su come funziona la letteratura qualcosa credo di avere capito, spero di aver avuto abbastanza curiosità e i maestri giusti per farne una mia fissazione non stupida. E mi irrito quando vedo che molti critici e scrittori, oggi, si comportano con la letteratura come molti maschi si sono sempre comportati con le donne: la esaltano pur di non prenderla sul serio. La riducono a essere un galoppino per le loro idee, la annegano di certezze consolatorie sulla sua onnipotenza, mentre la letteratura cambia davvero le cose quando urta contro la propria impotenza, alleandosi a quei fondamentali temi umani che gli «esercenti di questa Terra» (politici, industriali, opinion makers) trascurano e rimuovono: la depressione, la noia, la convinzione che nulla abbia un senso, il lasciar perdere, il desiderio di schiavitù, il rancore, l'inconcludenza, la stupidera il basso continuo della miseria umana da cui ogni volta le ideologie si dichiarano offese e sorprese. Forse quella letteratura era un lusso che non ci possiamo più permettere, ma allontanare la letteratura dall'elitarismo significa sollevarla dalle proprie responsabilità, che consistono nel rovistare con tecniche sopraffine e subdole là dove abbiamo nascosto la nostra spazzatura più segreta; solo quando fa male, la letteratura può davvero essere utile.
Esiste il fronte, certo, esistono le trincee e quindi esistono gli inni e i canti di battaglia; ma finita la guerra, che ne facciamo di tutto quello in cui gli opposti nemici si sono trasformati senza saperlo? Chi combatte sta là, a fronte alta, mentre io me ne sto qui rannicchiato e inerte a sputare sentenze; vi prego almeno di credere che non si tratta di sentenze, è solo una piccola rivendicazione corporativa, quasi una vertenza sindacale (i famosi sindacalisti che vorrebbero mettere il gettone nell'iPhone). Non mi sento né in grado né in vena di lanciare grida d'allarme: ma discuterne un poco, magari sì.
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